Non auro sed ferro: mostra di Alessandro Carnevale a Savona

Su lastre di ferro, alluminio e acciaioAlessandro Carnevale incide scenari post-industriali, relitti romantici e archeologie incandescenti . Dal 19 marzo al 16 Aprile è proprio la sua città, Savona, ad ospitare la mostra “Non auro sed ferro”: 40 opere ricoperte di ruggine e acidi realizzate sugli stessi scarti delle fabbriche dismesse. La location è eccezionale, le Cellette del Priamar, fortezza del 1542 che sorge sul promontorio ligure e abbraccia mare e monti, città e porto. Sulle tele del giovane ligure emergono bagliori puntuali su sfondi scuri, accurati dettagli di travi e lunghe finestrature che ci riportano agli anni della produzione industriale. E quindi, alle lotte sociali, alla manodopera specializzata, all’architettura che sperimenta e che produce in cicli settorializzati.

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All’ombra di Priamar, ora cittadella d’arte, sorgevano le fonderie di Savona con 130 anni di storie di successo, bancarotte e manifestazioni in piazza. L’epilogo “scandaloso”, come anche in altre città italiane ed estere, si può riassumere nella dismissione, abbandono e parziale demolizione: le ruspe della speculazione edilizia hanno risparmiato qua solo una delle sei ciminiere, tre capannoni e l’ex-edificio della direzione.

Il tema coerente e ossessivo dell’intera produzione di Alessandro Carnevale è ritrarre i relitti dell’era industriale in maniera drammatica e penetrante, al contrario delle fredde fotografie dei coniugi Becher e di Basilico. Travi reticolari in successione, ciminiere e silos che si stagliano imperturbabili come simulacri arrugginiti in paesaggi fumosi e acidi, dove si scorgono confortanti luccichii e simmetrie perfette. Sono gli stessi scenari in cui l’autore è nato e cresciuto, che hanno segnato tre generazioni, acceso classi operaie e visto lo sviluppo locale, riassetti delle fonderie e degrado dell’area.

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“Non auro sed ferro recuperanda est Patria” , ovvero “Non con l’oro ma con il ferro delle armi si salva la Patria”.

Il titolo della mostra è l’incipit dalla celebre affermazione di Marco Furio Camillo, in risposta al riscatto chiesto dai Galli per lasciare Roma. Se non per i materiali che usa l’autore, la collezione in realtà non ha niente a che fare con la citazione, lotte tra popoli e riscatti mancati. Più che prendere in prestito l’espressione, Alessandro Carnevale vuole proporne una personale reinterpretazione. La libertà del popolo è intesa, si legge nel comunicato stampa, come …. una patria che si difende col ferro del lavoro e del conflitto, anche ideale. E oggi più che mai è minacciata dall’oro del profitto, dell’instabilità liquida, della globalizzazione sregolata. Che non a caso vede nell’archeologia industriale non un patrimonio simbolico ma solo grandi cubature, grandi affari’’.

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Da tempo è stato riconosciuto il valore archeologico e sociale dei siti industriali dismessi. In Italia però, al di là di alcuni esempi virtuosi a Torino e Firenze Novoli, il mancato accordo tra soggetti privati e pubblici, i costi proibitivi delle bonifiche e il collasso del sistema finanziario hanno bloccato moltissimi progetti di riconversione. Le ciminiere, i silos e i tralicci di Savona, Bagnoli e Taranto, tanto per citarne alcune, testimoniano la storia delle fabbriche e degli smisurati distretti industriali passati attraverso periodi floridi, lotte di partito e delocalizzazioni. Oggi su un territorio deturpato e fortemente edificato, sono simboli ingombranti di disastri ambientali, truffe e spreco delle risorse pubbliche.

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L’inesorabile e “scandalosa” parabola del ferro e dei suoi centri produttivi (Scandalo metallico” è il titolo della sua precedente mostra curata da Del frate) se non può essere salvaguardata dovrà, perlomeno, secondo Carnevale, essere testimoniata con gli stessi materiali e processi lavorativi del nobile materiale, tristemente soppiantato da plastiche e resine.

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Marine che specchiano gru e piattaforme e notturni costellati dalle luci fredde delle centrali. Le tele, scatti di audaci prospettive e visioni rarefatte, mostrano reverenza verso le fabbriche dismesse, le ex cattedrali del lavoro operaio che, al pari delle fortezze e delle chiesi romaniche, sono entrate a far parte della memoria collettiva e del paesaggio autoctono.

Sul ferro nero, alluminio anodizzato e acciaio grezzo, i dipinti vengono fuori da combustioni e smalti industriali, dall’irrorazione di acidi e soluzioni chimiche. La tecnica non è solo mezzo rappresentativo, ma assieme al Tempo, ne è protagonista, cangiante e grezza, rottamata e depauperata come i soggetti disegnati. La collezione ripropone laconica immagini lunari e atemporali, in cui l’assenza dell’uomo e di qualsiasi attività lasciano pensare all’immobilità, all’attesa di ruspe e progetti avveniristici.

Lungo le banchine dei pontili, all’interno di giganteschi depositi e ciminiere altissime, alcuni possono ricordare aneddoti della propria vita, delle guerre, del tempo in cui si sfruttavano collegamenti e risorse del territorio. Le fabbriche si ergevano come roccaforti pulsanti della produzione senza sosta, e riunivano collettività per lo svago e per conquiste sociali, come il lavoro femminile e i diritti degli operai.

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A ben vedere, le aree industriali sono state forse le prime, le più evidenti, a perdere funzione e significato. A zuccherifici, birrifici e pastifici, si sono aggiunte caserme, ospedali, macelli, porti e aree ferroviarie. Quartieri e palazzoni anni ’60-’70, ex-cinema, teatri ma poi sarà il turno dei centri commerciali, di desueti grattacieli rotanti o edifici multifunzione certificati. La città continuerà ciclicamente a lasciare “buchi neri” e a dismettere aree più o meno grandi con cui dovrà relazionarsi e stabilire limiti a cambiamenti, che non siano dettati solo da logiche di profitto e dal profitto di pochi, ma in cui si preveda la salvaguardia della memorie storico-culturale collettiva.

Le fabbriche dismesse, da simboli decaduti di città e di interi bacini industriali, sono diventati landmark di aree da riqualificare; in molte città europee come Amburgo e Marsiglia, sono state convertite in expo, loft e ristoranti. La storia delle città è fatta di ripensamenti, sovrascritture, abbattimenti e mode passeggere. È necessario scegliere continuamente cosa salvare e cosa distruggere, in bilico tra una coscienza immemore che specula e abbatte in nome di una sostenibilità certificata e una coscienza conservativa che ricuce, recupera e limita il nuovo.

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L’opera di Carnevale, in un periodo di gentrificazione ma anche di riconversioni di bunker, cimiteri di locomotive e vecchi aeroplani, ricorda come la salvaguardia di alcune preesistenze sia necessaria per la definizione della città contemporanea stratificata.

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Interventi per il risparmio energetico: come trovare la ditta più adatta

Contenere i consumi per risparmiare energia e denaro e ridurre la nostra impronta ecologica non è più un miraggio lontano. Che si ricorra a impianti all’avanguardia o al verde per il contenimento delle dispersioni, molti sono gli interventi e le soluzioni che contribuiscono al risparmio energetico tra le mura domestiche e gli incentivi per finanziarli ricorrendo alla ditta più adatta.

In copertina: Housing, green background, di Beeboys via Shutterstock.

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A richiedere a gran voce un aiuto concreto per fronteggiare i consumi tra le mura domestiche sono ovviamente i cittadini, in particolare quelli delle fasce medio basse, più colpiti in caso di rincari in bolletta. Secondo Norbert Lantschner, presidente della Fondazione ClimAbita e responsabile dell’area Green Habitat al Saie: “Le famiglie italiane, stressate dai costi sempre più elevati dell’energia, sono alla ricerca di sistemi che diano l’opportunità di ridurre le voci di spesa per riscaldare, raffreddare e illuminare gli appartamenti”. Che si pensi ad un impianto che ci aiuti nel risparmio, o all’impiego del verde, quale modo migliore di ridurre la spesa energetica se non quella di ricorrere a interventi progettuali che seguano criteri sostenibili? Quale strategia adottare per rendere più efficiente la nostra abitazione?

Le risposte sono molteplici, perché dipende in primis dallo stato in cui versa l’immobile e dai suoi consumi. Se la nostra casa è davvero ridotta a un colabrodo, per ottenere un vero risparmio energetico futuro è probabile che si debba chiedere l’intervento di una ditta specializzata per intervenire su molti fronti, a partire dalla coibentazione delle pareti domestiche fino alla sostituzione degli infissi con serramenti più performanti.

Il contributo del verde per il risparmio energetico

Riscaldare la casa in inverno e raffrescarla d’estate. Questi sono alcuni dei bisogni più comuni per una vita confortevole tra le mura domestiche. Richiesta ulteriore degli inquilini di un immobile sarà quella di ottenere tutti i benefici di una casa che risponda alle variazioni climatiche esterne a costi ridotti e senza incorrere in costosi lavori per i nuovi impianti di riscaldamento e raffrescamento.
Una soluzione, sicuramente green e meno invasiva, consiste nel ricorso al verde. I tetti giardino e i green walls (ovvero le pareti verdi) sono un’ottima soluzione per contenere i consumi energetici domestici e garantire il risparmio energetico.

I tetti giardino, o green roof, contribuiscono ad aumentare l’inerzia termica: durante l’inverno il manto verde contiene le dispersioni, mentre d’estate evita l’innalzamento della temperatura all’interno dell’abitazione. Altri vantaggi di questo pacchetto in copertura sono l’aumento dell’isolamento acustico dell’edificio, la capacità del verde di assorbire CO2 e filtrare l’aria inquinata, e l’assorbimento graduale e il filtraggio dell’acqua piovana per non caricare l’impianto fognario.

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Realizzare una parete verde per il risparmio energetico della casa è molto più semplice. Pannelli in PVC e feltro costituiscono il supporto su cui cresceranno essenze rampicanti che aiuteranno a mantenere costante la temperatura interna, contenendo le dispersioni di calore in inverno e il riscaldamento eccessivo delle pareti durante l’estate. È innegabile inoltre il valore estetico di queste pareti vegetali che bilancia il minimo contributo delle green wall al contenimento della trasmissione di rumore.

Molte indicazioni su questi ed altri interventi si trovano già in rete, ma la difficoltà maggiore consiste nel trovare la ditta migliore che sappia rispondere ai nostri problemi. Il portale web eTerra.it, specializzato nel risparmio energetico della casa, è un ottimo alleato per chi vuole informarsi sulle normative vigenti e tenersi aggiornato delle tecnologie legate all’edilizia sostenibile. Oltre ad articoli dedicati all’approfondimenti di varie tematiche legate al risparmio energetico, il sito mette in contatto diretto gli utenti e le aziende più competenti. Un’apposita sezione dedicata alle ditte permette loro di registrarsi gratuitamente e di essere facilmente reperibili in base alla zona di attività e all’area di competenza. Gli utenti in cerca di soluzioni potranno richiedere fino a 5 preventivi in base al servizio e all’intervento richiesto per lavori di edilizia, progettazione, ristrutturazione ed impiantistica. 

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Progresso digitale: quale futuro per la professione dell’architetto?

Le nostre vite, oggi, sono estremamente diverse da quelle di un secolo fa. Solo una decina di anni fa, l’umanità è stata stravolta dal progresso digitale e dalle tecnologie “smart”. I tablet e gli smartphone sarebbero stati fantascienza un decennio fa, ma oggi con un solo tocco riusciamo a controllare e a gestire gli spazi all’interno delle nostre case, le nostre auto, ecc. Nel prossimo secolo molto probabilmente, questo cambiamento sarà esteso anche a livello territoriale e ambientale, in modo da permettere all’uomo di essere sempre più parte dell’ambiente che lo circonda. Quale futuro aspetta allora la professione dell’architetto?

In copertina: Echoviren, installazione architettonica stampata in 3D dello studio Smith|Allen per Project 387 a Gualala (California). 

LE STAMPANTI 3D E IL MONDO DEGLI ARTIGIANI DIGITALI

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Nella cultura popolare, la città del futuro viene immaginata come una realtà fantastica, ma resa allo stesso tempo terrificante dall’insieme di quelle eccezionali tecnologie che le domineranno.

Uno studio dell’università di Oxford, a cura dei proff. Frey e Osborne (Oxford Martin School e Citi GPS) valuta il possibile impatto delle nuove tecnologie e delle scoperte in ambito tecnologico nel mondo del lavoro. La trasformazione digitale offre indubbiamente molte opportunità ma anche molti rischi.

La professione dell’architetto tra 100 anni

Molti architetti – come Vincent Callebaut – e creativi, da qualche anno hanno iniziato ad esprimersi attraverso render e disegni suggestivi per trasmetterci la loro visione futuristica. Secondo alcuni saremo in grado di andare in vacanza portando con noi la nostra casa, che si potrà spostare tramite enormi droni, secondo altri, invece di concorrere a realizzare grattacieli alti oltre un miglio, ricercheremo nel sottosuolo e nei fondali marini nuovi spazi per costruire la nostra dimora. Le persone arriveranno a scegliere l’Earth-Scrapers che più si accosta alle proprie esigenze arrivando ad abitare oltre 25 piani sottoterra.

In rete si possono trovare riferimenti a case sott’acqua in vendita a Dubai, ma nel futuro, queste saranno solamente luoghi comuni che verranno surclassati inesorabilmente da quelle che diventeranno le nuove città sottomarine, equipaggiate con pelli protettive ultra tecnologiche che assimilano energia pulita dagli elementi circostanti.

caption: © REX/Shutterstock

caption: © REX/Shutterstock

La stampa 3D per l’architettura

La maggior parte delle attrezzature, degli oggetti e degli strumenti che l’architetto utilizzerà per la professione nel mondo del futuro sarà stampata digitalmente; infatti, quello che avrà uno sviluppo oltre ogni misura sarà la capacità di produrre autonomamente, con stampanti 3D, gli oggetti che ci servono. Ad oggi, dopo il boom delle prime vendite, questa tecnologia è utilizzata per la cosiddetta progettazione scaricabile. I possessori di stampanti 3D, frequentemente, utilizzano queste macchine per stampare modellini che si trova in rete, spesso fatti da altri designer, giusto per “provare a stampare qualcosa”. Nel futuro queste ci permetteranno di stampare intere abitazioni, moduli abitativi di emergenza, arredi, accessori. Tutto verrà integrato a sistemi domotici che ci permetteranno, tramite un solo tocco, di cambiare modello o colore, di parte, o dell’oggetto desiderato.

caption: Lloyd Alter/CC BY 2.0

Seppur in maniera relativamente limitata, le macchine a controllo numerico, per oltre 30 anni, ci hanno permesso di realizzare design particolari, dagli oggetti/arredi alle finiture. Queste, con il passare del tempo, hanno annunciato l’era della produzione digitale, dove l’input umano è limitato alla redazione di un disegno a computer che viene poi convertito automaticamente in un oggetto fisico dalla macchina utensile.

caption: Lloyd Alter/ Instant kitchen/CC BY 2.0

Il progresso digitale e il passaggio dalle macchine utensili a controllo umano a quelle con controllo computerizzato avrà un impatto ambientale a livello mondiale? L’automazione ha sempre avuto un costo energetico maggiore rispetto a quello della meccanizzazione. E la storia ha insegnato quanto il passaggio dalla movimentazione animale a quella che utilizza combustibile fossile, ha inciso sull’inquinamento dell’intero pianeta. Un paragone un po’ azzardato ma che può rendere l’idea. 

Sicuramente queste nuove macchine, maggiormente energivore rispetto alle precedenti, compenseranno il loro consumo di risorse attraverso il maggiore livello di efficienza, l’incremento di produttività e il considerevole risparmio di materie prime che viaggerà parallelamente alla quasi completa eliminazione degli scarti.

Architetti o computational designers?

Secondo Arturo Tedeschi – architetto, ricercatore, computational designer e pioniere dell’architettura parametrica – nei prossimi decenni, il ruolo dell’architetto verrà completamente stravolto. Molte università stanno – poco per volta – aggiornando la propria offerta formativa per cercare di arrivare a formare i professionisti di domani che saranno inevitabilmente un connubio tra architetti e computational designer. La figura classica dell’architetto rimarrà, ma diventerà molto più di nicchia. Per questo finchè possibile dobbiamo prepararci, formarci e utilizzare al meglio tutti questi strumenti di nuova generazione che un domani saranno probabilmente la quotidianità.

La Digital Fabbrication ad oggi è già stata impiegata in ambito aerospaziale (Rolls-Royce ha stampato in 3D un componente incorporato nel motore di un Aereo Trent XWB-97 del diametro di 1.5 metri e dello spessore di 50 cm) in campo edilizio, uno studio inglese già realizza abitazioni con elementi lignei ritagliati da macchine a controllo numerico tenendo conto anche dei fattori climatici e ambientali, e nel campo del design con accessori come vestiti e scarpe interamente stampati in 3D (Ilabo by Ross Lovegrove e Arturo Tedeschi e Flames by Zaha Hadid)

caption: Il più grande elemento per volare mai stampato in 3D - Rolls Royce

caption: Facit Homes Limited © 2016

caption: Ilabo by Ross Lovegrove

caption: Flames by Zaha Hadid

La potenza della condivisione

Per certi design il tempo di studio risulta più elevato rispetto a quello necessario per altri, dipende dal campo di applicazione e dal risultato a cui si vuole raggiungere. La cosa positiva di questa rivoluzione digitale, a mio parere, consiste nella condivisione. Le informazioni e i progetti si condivideranno alla stessa velocità con la quale oggi si copia un mp3 sul proprio dispositivo portatile, facendoci dimenticare i vecchi tempi del design scaricabile e dell’era della scarsa ed inefficiente produttività digitale.

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L’altalena che rende l’acqua potabile

In Corea del Sud, i ricercatori dell’Università di Hanyang hanno progettato un’altalena capace di estrarre acqua dal sottosuolo e purificarla per renderla potabile. Il problema della carenza di acqua potabile, una risorsa vitale, è purtroppo sentito da molte popolazioni. Secondo un rapporto dell’UNESCO, entro il 2030 il mondo dovrà affrontare la perdita di ben il 40% delle risorse globali di acqua potabile, in uno scenario generale in cui i cambiamenti climatici sono alla base di questo problema. 

CRISI GLOBALE DELL’ACQUA: UN PROGETTO D’ARTE PER SENSIBILIZZARE

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Nel caso dell’Africa le cifre sono ancora più preoccupanti. Si stima che molte donne impegnino fino a quattro ore al giorno per la ricerca e per il trasporto di acqua, un compito gravoso reso ancora più duro dal trasporto effettuato totalmente a piedi. 

Ad oggi circa il 36% del totale della popolazione mondiale non ha accesso a fonti di acqua potabile e questo è causa di epidemie e decessi per disidratazione.

Oltre all’altalena ideata in Corea  del Sud, negli ultimi anni sono stati brevettati diversi sistemi per estrarre e raccogliere l’acqua potabile purificandola, ed è stata anche ideata una serra che permette alle piante di crescere in pieno deserto, ma tutto ciò non è ancora sufficiente a risolvere il problema della carenza idrica nei paesi del terzo mondo

L’altalena per estrarre acqua potabile

Un’altra iniziativa per quanto riguarda questa difficile realtà è “OasiSaw”, un sistema innovativo che sfrutta l’energia prodotta da un meccanismo a bilanciere per estrarre acqua dal sottosuolo. 

Il dispositivo, utilizzabile come un gioco anche dai bambini, produce energia per alimentare una pompa per estrarre l’acqua da falde sottoterranee. Inoltre la pompa di cui fa parte il sistema è dotata di filtro per depurare l’acqua e renderla potabile.

L’altalena, progettata da Jin Hyuk Kim dell’Università di Hanyang (Corea del Sud), fa sì che si generi un flusso d’acqua grazie all’attivazione di una turbina che spinge l’acqua in un tubo collegato a sua volta con un rubinetto.

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Il flusso passa prima in un microtubo di carbonio che agisce da filtro per rimuovere virus e batteri: in questo modo si ottiene acqua potabile, senza bisogno di trasportarla a mano per lunghi tratti.

Questa invenzione consente di recuperare una fonte di vita coinvolgendo allo stesso tempo dei bambini nel processo di recupero che simula un gioco.  

Un tubo che si estende sotto il piano di calpestio può essere pressurizzato con questa tecnologia intelligente, e un’ora di attività sull’altalena Oasi Saw potrebbe fornire, filtrandola, abbondante acqua depurata per un cospicuo numero di persone assetate.

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Le Turf Houses islandesi candidate a patrimonio Unesco

“Turf”, in inglese, significa torba, ed è con questo materiale assolutamente naturale che in Islanda, fin dal nono secolo, si ricoprono i tetti delle case mantenendo inalterato nel tempo il tradizionale metodo costruttivo che le rende più affascinanti che mai e capaci di raccontare una loro storia. Una tradizione che ha fatto sì che queste singolari abitazioni (Turf houses, appunto) fossero candidate a Patrimonio Unesco

TETTI VERDI: SONO SICURI?

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Storia ed origini delle Turf Houses islandesi

Furono i coloni provenienti dal nord, come i Vichinghi, che introdussero questa nuova tecnica per contrastare in modo adeguato i climi rigidi invernali tipici di queste latitudini.

Ma, a differenza di paesi come la Norvegia, l’Irlanda, la Scozia, l’Olanda e la Groenlandia, dove la pratica di ricoprire i tetti di “turf” fu usata per realizzare abitazioni per le persone più povere, in Islanda le cose andarono diversamente; la tecnica del tappeto erboso fu introdotta per tutti i tipi di edifici e per tutte le classi economiche senza creare differenze tra ricchi e poveri, dalle residenze dei capi a quelle dei contadini, dagli edifici religiosi ai ricoveri per gli animali.

Ed è questo il principale motivo che le ha fatte candidare a Patrimonio Unesco come eccezionale esempio di “architettura vernacolare” (dal latino vernaculum, tutto ciò che era realizzato localmente).

L’evoluzione delle Turf Houses

Nel corso dei secoli, le turf houses, pur mantenendo i medesimi materiali da costruzione, hanno subito un’evoluzione nella forma, adattandosi di volta in volta al contesto e al mutare delle esigenze. Si è così passati dalla casa allungata stile nordico usata per lavorare e dormire, a più case collegate fra loro da un corridoio centrale, con una parte sopraelevata adibita a zona notte, ben riscaldata e isolata dall’ingresso.

Oggi queste case non sono tutte abitate, molte sono totalmente abbandonate oppure usate come depositi; restano in ogni caso la testimonianza diretta di una lunga tradizione storica e un solido collegamento con il passato, evidenziando il loro ruolo nel paesaggio rurale della campagna islandese. Da qui l’interesse culturale rivolto a queste costruzioni e sfociato nella candidatura Unesco.

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Come sono fatte le “case di torba”

Oltre alla torba che ricopre la sommità e le pareti, per la struttura si usano il legno e la pietra che, in certi casi, forma la base per il tetto. La durata di questi materiali è molto variabile. La torba subisce un inevitabile processo di deterioramento e va sostituita dopo i 20-70 anni in base a una serie di fattori che variano dalla sua composizione, al clima locale e all’abilità degli artigiani.

L’utilizzo della torba per la realizzazione dei tetti delle Turf Houses presenta molti vantaggi: si trova abbondantemente in Islanda ed è gratuita, trattiene bene il calore mantenendo uniforme la temperatura interna e non lascia passare le infiltrazioni d’aria. Pietre e legname possono essere invece riutilizzati.

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Guida all’acquisto del regalo di Natale per un architetto + 10 idee

Devi fare un regalo di Natale ad un amico architetto o alla fidanzata che ha appena ricevuto un incarico come direttore dei lavori? Niente panico.

Gli architetti sembrano esseri difficili, a volte snob, spesso si credono artisti incompresi, ma fare loro un regalo non è cosa impossibile. L’importante è evitare questi 4 errori da principiante e seguire questi (ironici) consigli:

  1. Evita fronzoli, merletti, decorazioni. Orientati piuttosto su un oggetto dalle linee pulite e semplice, senza fronzoli. L’essenzialità è una regola d’oro.
  2. Se sei indeciso tra un oggetto colorato o nero, non farti prendere dalla voglia di aggiungere un tocco di colore al guardaroba del tuo amico: potrebbe essere un grave errore. Ricordati che l’architetto per antonomasia si veste di nero dalla testa ai piedi.
  3. Pensa ad un regalo di Natale che lo faccia sentire un po’ più figo sul luogo di lavoro. Non potrai sbagliare.
  4. Non cadere nel tranello dell’elettronica: il tuo amico architetto avrà sicuramente il gadget più avanzato di quello che trovi sullo scaffale (anche virtuale) del tuo negozio di fiducia.
In copertina: Christmas gift box on white carpet in front of tree di Melpomene, via Shutterstock.

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Se questi consigli e suggerimenti sugli errori da evitare non sono sufficienti a fare accendere la lampadina e farti venire in mente un bel regalo di Natale per il tuo amico architetto, passiamo a qualche suggerimento pratico. Abbiamo infatti collezionato 10 idee per un regalo allo stesso tempo utile, semplice, professionale e in qualche modo legato al mondo dell’architettura. Crediamo che gli architetti potrebbero apprezzarli trovandoli sotto l’albero di Natale.

Regali professionali per un architetto

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Intramontabile, indispensabile, essenziale. Con un portamine non puoi sbagliare. Qualsiasi architetto che si rispetti ne possiede almeno uno, e si aggira spesso nei negozi specializzati in articoli per il disegno in attesa di aggiungerne qualcun altro alla propria collezione. Questo portamine della storica azienda italiana Kok-I-Noor è essenziale ed è prodotto da una realtà attiva nel mondo del disegno dal 1790.

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Oltre al portamine, c’è un altro oggetto che non può mancare ad un architetto. La Moleskine. Nera, ovviamente! Meglio se a pagine bianche.

Proteggere il proprio cellulare in cantiere è fondamentale. Polvere, sporco, urti e cadute potrebbero danneggiarlo. Una cover protettiva è fondamentale. Se utile anche a ribadire il proprio ruolo di architetto, ancora meglio. È disponibile per tantissimi modelli di cellulare.

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È chiaro che gli architetti tra tutti i colori prediligono il nero. Se proprio non deve essere nero, che sia bianco. Una sola eccezione: i Pantone. Questo brand ha finalmente portato un po’ di colore nella vita degli architetti, troppo impegnati a trascorrere le proprie nottate al pc per poter pensare a come abbinare i colori dei propri vestiti. Ebbene sì, se scegliete un oggetto della collezione di Pantone, può avere un colore. Se non volete arrendervi al nero Oltre alla cover per iPhone (che ho scelto di proporvi in giallo ma le opzioni sono tantissime) altre idee colorate sono una tazza pantone o una carinissima pallina Pantone per l’albero di Natale

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In alternativa, perfetto per chi ha recentemente inaugurato il proprio studio, un originale quadro raffigurante una citazione del famoso architetto Frank Lloyd Wright

Regali per il tempo libero di un architetto 

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Che ci creda o no, anche gli architetti hanno del tempo libero. Per lo più però lo trascorrono tentando di risolvere i crash di Autocad o leggendo libri di architettura. Per tentare di distrarli provate con un puzzle 3D. Di un edificio, ovviamente. Ce ne sono di diversi che raffigurano il Big Ben, la Torre Eiffel ed una versione completa del Colosseo. Per gli appassionati di calcio consigliamo il puzzle 3D dello stadio della Juventus, il Santiago Bernabeu o lo Stadio Olimpico di Roma.   

Gli intramontabili mattoncini Lego ora sono di moda anche tra i grandi. La serie Architecture è dedicata ad edifici famosi e ben noti a tutti gli architetti come Ville Savoye e la Sidney Opera House.

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Per convincere il tuo amico architetto ad uscire un po’ più spesso puoi provare a regalargli dei gemelli a forma di squadretta. Così non si allontanerà mai troppo dalla sua amata professione. 

In generale, se preferisci qualcosa di più serio, con una monografia di un architetto famoso o un libro di architettura vai sul sicuro. Ma abbiamo scovato qualcosa di più particolare, con cui crediamo possa fare centro. 

Ironico, il libro “Maledetti Architetti – dal Bauhaus a casa nostra” di Tom Wolfe analizza in modo divertente gli errori progettuali delle case moderne esaltando invece la semplicità e l’efficienza del Bauhaus e ridendo sugli architetti che rubano dal mondo della moda le parole per descrivere i propri progetti.

La recita dell’architetto – 1532 film e un videogioco”, è invece consigliato per gli amanti dell’architettura come del cinema. Questo libro infatti sottolinea lo stretto legame tra le due arti raccogliendo ben 1532 film in cui l’architetto è protagonista

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Elogio del muschio: paesaggi norvegesi a Londra

La natura si insedia sempre più in città, grazie alle living walls, agli orti e ai parchi urbani. Si aggiungono ora anche graffiti ecologici e pareti di muschio e licheni. Dopo l’esordio in piccoli interventi di guerriglia urbana, diventano addirittura i protagonisti dell’installazione “Moss your city” realizzata dallo studio Pushak. Paesaggi e odori delle foreste norvegesi si materializzano a Londra: sulle pareti di espanso sono fissate zolle di muschio prelevato dai boschi, mentre grazie ad aperture asimmetriche il visitatore può percorrere una sorta di galleria-labirinto. L’atmosfera, seppur in scala ridotta, è quella di una grotta naturale umida e verdeggiante.

Tecniche e progetti per il verde verticale

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L’architettura vuole ancora una volta incontrare la natura restituendo prestigio ad un elemento, il muschio, da sempre visto come nemico delle costruzioni. Pensato e pianificato può, invece, diventare una componente positiva dell’architettura e dei giardini. Del resto nei giardini giapponesi, nelle pavimentazioni in pietra e adesso anche nelle living walls, i risultati ottenuti sono piuttosto sorprendenti. È possibile sfruttarne la versatilità, l’abbondanza in natura e la bassa manutenzione necessaria dopo l’installazione, mantenendo sempre condizioni di alta umidità e poca luce. Ricoprire di muschio e licheni città, ambienti interni e giardini sta diventando un nuovo trend, un tipo di inverdimento più sostenibile ed economico delle pareti verdi.

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L’installazione di Londra, presentata nel Festival dell’Architettura del 2010, è il primo progetto estero del collettivo femminile di Oslo, nato da un programma di scambio dell’Architecture Foundation per architetti emergenti in Norvegia e nel Regno Unito. L’intento è di incantare e di perdersi nel labirinto verde, celebrando i paesaggi scandinavi e il muschio come materiale interessante, che può lavorare in armonia con il design contemporaneo.

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In realtà il muschio fissato alle pareti non può più crescere, ed ha più una valenza estetica che ecologica. Gli architetti Pushak hanno, però, deciso di studiare la relazione tra architettura contemporanea e i paesaggi norvegesi, adattandoli all’ambiente londinese e alle esigenze espositive. Al termine della galleria vegetale, cartoline esplicative riportavano sul retro la ricetta dei graffiti di muschio.

Se volete realizzare un eco-graffito basta seguire le semplici istruzioni presenti su wikiHow con pochi ingredienti quale muschio, yogurt e birra.

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Saie Smart House: i progetti di urbanistica più green

Anche quest’anno il SAIE, Salone dell’Innovazione Edilizia di Bologna, ha voluto premiare i progetti di urbanistica che meglio hanno saputo interpretare il concetto del green building, attraverso la riqualificazione architettonica degli spazi urbani e delle aree industriali in disuso.

Il premio RI.U.SO di Saie Smart House 2015 dedicato all’urbanistica green e alla rigenerazione urbana sostenibile è stato assegnato dalla giuria che ha valutato gli aspetti urbanistici legati alla sostenibilità del progetto, con particolare attenzione al concetto di densificazione e rigenerazione urbana per ridurre il consumo di territorio.

IL RICICLO DEI VUOTI URBANI: UN PROGETTO IN SPAGNA

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I PROGETTI VINCITORI DEL PREMIO RI.U.SO.

“Ripartire dalla città esistente”  vincitore per la sezione architetti

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Il progetto di via Andrea Costa portato avanti dal gruppo di lavoro con a capo Mauro Sarti è riuscito a trasformare un luogo, che fino a prima era solamente di passaggio e di parcheggio, in uno spazio a servizio della comunità dotato di una zona verde attrezzata che mira al raggiungimento di un’idea di boulevard sempre più sentita nella città contemporanea. L’intervento ha trasformato la strada esistente in un grande viale alberato con uno spazio verde che ha triplicato le sue dimensioni, attraverso il ridisegno anche dei giardini vicini. Il progetto mette in gioco una nuova visione della città dove in primo piano si trovano gli spazi verdi per la socialità, costruiti per rispondere alle esigenze dell’uomo prima di tutto. Lo spazio verde rimane integro, non viene corrotto dalla necessità di trovare risposta alle esigenze più pratiche, relegate infatti ad un livello secondario: la nuova isola ecologica viene realizzata al di sotto del livello stradale, utilizzando uno spazio che di più si presta a svolgere una funzione di questo tipo, garantendo anche un maggior risultato non solo dal punto di vista progettuale, ma anche pratico.

“Rehabitar” vincitore per la sezione Università Enti Fondazioni e Associazioni

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La continua trasformazione della città contemporanea ha messo in moto un processo di reinterpretazione dei vecchi poli industriali e artigianali dismessi; il Poblenou, quartiere storico di Barcellona è uno di questi spazi che si è caratterizzato negli ultimi vent’anni per una serie di profondi cambiamenti. Questo continuo processo di trasformazione, che attualmente muove ancora le sue macchine, ha contribuito però a creare un tessuto disomogeneo che spesso è rimasto inconcluso. È proprio su questo che i progettisti, capitanati da Sara Neglia, si sono concentrati, con l’obiettivo di ridare vita ad un distretto industriale ormai dismesso. L’idea di progetto si basa su una proposta che abbia come risultato la formazione di un modello per una strategia di riuso articolata in tre fasi, con lo scopo non tanto di definire un’architettura, ma piuttosto diffondere un processo di trasformazione che riesca a fondere i nuovi sistemi con l’esistente. L’integrazione diventa così un punto fondamentale dell’intero percorso progettuale, attraverso la sperimentazione e la partecipazione attiva dei cittadini che vivono questi spazi.

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Un buon risultato secondo gli organizzatori del premio che hanno visto la partecipazione di 1200 progetti, a testimoniare della ricchezza e della qualità della progettazione sui temi di sviluppo sostenibile della città. I progetti hanno saputo interpretare al meglio il carattere della competizione offrendo prodotti di grande qualità, segno che si sta diffondendo una sensibilità e una voglia di misurarsi sui temi della progettazione sostenibile.

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Saie Smart House: i progetti di urbanistica più green

Anche quest’anno il SAIE, Salone dell’Innovazione Edilizia di Bologna, ha voluto premiare i progetti di urbanistica che meglio hanno saputo interpretare il concetto del green building, attraverso la riqualificazione architettonica degli spazi urbani e delle aree industriali in disuso.

Il premio RI.U.SO di Saie Smart House 2015 dedicato all’urbanistica green e alla rigenerazione urbana sostenibile è stato assegnato dalla giuria che ha valutato gli aspetti urbanistici legati alla sostenibilità del progetto, con particolare attenzione al concetto di densificazione e rigenerazione urbana per ridurre il consumo di territorio.

IL RICICLO DEI VUOTI URBANI: UN PROGETTO IN SPAGNA

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I PROGETTI VINCITORI DEL PREMIO RI.U.SO.

“Ripartire dalla città esistente”  vincitore per la sezione architetti

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Il progetto di via Andrea Costa portato avanti dal gruppo di lavoro con a capo Mauro Sarti è riuscito a trasformare un luogo, che fino a prima era solamente di passaggio e di parcheggio, in uno spazio a servizio della comunità dotato di una zona verde attrezzata che mira al raggiungimento di un’idea di boulevard sempre più sentita nella città contemporanea. L’intervento ha trasformato la strada esistente in un grande viale alberato con uno spazio verde che ha triplicato le sue dimensioni, attraverso il ridisegno anche dei giardini vicini. Il progetto mette in gioco una nuova visione della città dove in primo piano si trovano gli spazi verdi per la socialità, costruiti per rispondere alle esigenze dell’uomo prima di tutto. Lo spazio verde rimane integro, non viene corrotto dalla necessità di trovare risposta alle esigenze più pratiche, relegate infatti ad un livello secondario: la nuova isola ecologica viene realizzata al di sotto del livello stradale, utilizzando uno spazio che di più si presta a svolgere una funzione di questo tipo, garantendo anche un maggior risultato non solo dal punto di vista progettuale, ma anche pratico.

“Rehabitar” vincitore per la sezione Università Enti Fondazioni e Associazioni

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La continua trasformazione della città contemporanea ha messo in moto un processo di reinterpretazione dei vecchi poli industriali e artigianali dismessi; il Poblenou, quartiere storico di Barcellona è uno di questi spazi che si è caratterizzato negli ultimi vent’anni per una serie di profondi cambiamenti. Questo continuo processo di trasformazione, che attualmente muove ancora le sue macchine, ha contribuito però a creare un tessuto disomogeneo che spesso è rimasto inconcluso. È proprio su questo che i progettisti, capitanati da Sara Neglia, si sono concentrati, con l’obiettivo di ridare vita ad un distretto industriale ormai dismesso. L’idea di progetto si basa su una proposta che abbia come risultato la formazione di un modello per una strategia di riuso articolata in tre fasi, con lo scopo non tanto di definire un’architettura, ma piuttosto diffondere un processo di trasformazione che riesca a fondere i nuovi sistemi con l’esistente. L’integrazione diventa così un punto fondamentale dell’intero percorso progettuale, attraverso la sperimentazione e la partecipazione attiva dei cittadini che vivono questi spazi.

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Un buon risultato secondo gli organizzatori del premio che hanno visto la partecipazione di 1200 progetti, a testimoniare della ricchezza e della qualità della progettazione sui temi di sviluppo sostenibile della città. I progetti hanno saputo interpretare al meglio il carattere della competizione offrendo prodotti di grande qualità, segno che si sta diffondendo una sensibilità e una voglia di misurarsi sui temi della progettazione sostenibile.

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Il film più sostenibile del 2015 vince il Green Drop Award

Una terra al limite fra Mongolia e Cina, un paesaggio lacerato da attività estrattive, una popolazione divisa fra pastori e minatori. È il suggestivo sfondo di Behemoth, il destabilizzante film che, denunciando provocatoriamente lo sviluppo insostenibile delle società industrializzate, è il vincitore ad elevata carica emotiva del Green Drop Award 2015.

THE HUMAN SCALE: IL FILM SULLE CITTÀ VIVIBILI

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Il riconoscimento, assegnato alla pellicola più green in concorso nella selezione ufficiale della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, consiste in una goccia soffiata da un maestro vetraio muranese ospitante un pugno di terra la cui provenienza, diversa di anno in anno, è nel 2015 un paese simbolo di siccità quale il Senegal.

Il documentario del pluripremiato regista cinese Zhao Liang secondo la giuria è il film che meglio “interpreta i valori dell’ecologia e dello sviluppo sostenibile, con particolare attenzione alla conservazione del Pianeta e dei suoi ecosistemi per le generazioni future, agli stili di vita e alla cooperazione fra i popoli”.

Vivendo in una città inquinata come Pechino, egli muove dalla propria esperienza personale per trasmettere allo spettatore, attraverso la dura verità di immagini “in bilico fra poesia e riflessione metafisica”, un insegnamento ambientale traendo spunto dallo scempio che si sta compiendo con l’avanzare delle miniere in Mongolia.

La sequenza di potenti immagini svela nella sua assurda concretezza come lo sfruttamento intensivo dei giacimenti ad opera di imprese cinesi, russe, canadesi stia divorando non solo il paesaggio, ma anche l’antico patrimonio culturale nomade, fatto di capanne tradizionali, tipiche usanze e produzione d’eccellenza di cashmere. Il ricordo della tradizione è ormai solo un lontano canto gutturale mongolo Xöömej che fa da surreale contrappunto alla visione apocalittica dello sbriciolamento in aria delle rocce causato da una deflagrazione.

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La Mongolia è ormai destinata ad una progressiva decadenza: la terra trema inerte al fragore di ogni nuova esplosione che – incurante delle proteste degli sciamani che pregano contro la Booming economy in nome di Tenger, il Cielo onnipotente -, continua con forza diabolica a sventrare le montagne.

La metafora infernale d’altronde permea tutto il film: il titolo stesso “Beixi Moshuo – Behemoth” (Mostro gigante), essendo il riferimento a un’entità mitologica identificabile con il diavolo, ne è sintesi simbolica.

Questa bestia invisibile, in continuità con il repertorio iconografico medievale in cui spesso è rappresentata con una “bocca divorante” dalla natura insaziabile, simboleggia col suo fagocitare le montagne l’ingordigia dell’uomo che nel suo incedere sregolato verso un’industrializzazione senza criteri ha creato un progresso devastante sia dal punto di vista ambientale che sociale. Concretizzandosi nell’insano “inferno in terra” delle miniere, Behemoth continuerà inesorabilmente, nel fragore di trivelle, gru, pale meccaniche e camion, ad inghiottire in alienanti ingranaggi chapliniani l’uomo suo generatore.

“Attraverso lo sguardo contemplativo del film, analizzo le condizioni di vita dei lavoratori e l’insensato sviluppo urbano. È la mia meditazione critica sulla civiltà moderna, in cui si accumula ricchezza mentre l’uomo perisce. […] Il comportamento umano si contraddistingue per follia e assurdità. Non siamo mai riusciti a liberarci dall’avidità e dall’arroganza, così il viaggio a spirale della civiltà si viene a riempire di deviazioni e regressioni”, afferma il regista.

Assurdamente, i pastori che, privati dei terreni su cui allevare i propri capi di bestiame in favore dell’avanzare di nuove miniere, fuggono per salvarsi, portano con sé durante il viaggio i simboli –non essenziali alla vita- del progresso: un uomo trascina una moto, mentre un altro a stento riesce a trasportare una televisione!

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Malinconicamente, la voce narrante che descrive i fotogrammi ricorda: “una volta cantavamo nel sole e nella dolce, gaia, aria. Ma adesso, io mi affliggo per l a terra mandata in frantumi”. E come la montagna viene distrutta, l’immagine ritratta è vista verosimilmente attraverso un vetro rotto. Questa disintegrazione dello schermo è un effetto sorprendente: in realtà si tratta infatti di uno specchio portato sulla schiena dalla voce-guida che nel suo percorso ritrae nel riflesso il dramma.

Lo specchio frantumato diventa una metafora della pluralizzazione, dell’estensione della portata del messaggio non solo al territorio specificamente ritratto dalle immagini, ma universalmente a tutti i paesi industrializzati; il termine Behemoth stesso è d’altronde un probabile pluralis excellentiae, tecnica usata nell’ebraismo per amplificare la potenza di un elemento rendendo il nome al plurale.

I frammenti riflettono un’immagine tanto evocativa nella sua distopica liricità da lasciare senza fiato: viene ritratto di spalle un nudo adagiato su un prato tanto verde da sembrare psichedelicamente irreale, rivolto verso il mondo industriale della miniera sullo sfondo, che inghiottirà con i suoi infernali rumori, le sue nubi di polvere tossica e i suoi colori tetri il bucolico paesaggio in cui vivono i pastori.

Passibile di diverse interpretazioni l’ambigua figura, ripiegata su se stessa in un raccoglimento che ricorda una posizione fetale.

Uomo o donna? Umano o diabolico?

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“Benché i monti gli offrano i loro prodotti e tutte le bestie domestiche vi si trastullino, egli si sdraia sotto i loti, nel folto del canneto e della palude”. Come nell’immagine evocata biblicamente da Giobbe, nella figura distesa sul prato, fra distese di lapidi o fra capanne, forse in realtà si cela il mostro, allegoria del progresso di cui l’uomo è al “tempo stesso vittima e carnefice”, perché “sembra di essere posseduti da una forza mostruosa e invincibile, invece siamo noi a creare questa bestia invisibile. È la nostra volontà.

E’ quindi inevitabile che dove ci sia l’uomo ci sia il mostro; Behemoth è nel male polmonare che divora l’uomo, è nelle ungulate macchine infernali che scavano le rocce, è nelle file di camion che senza soluzione di continuità salgono e scendono senza tregua lungo la spirale dei tornanti che collegano la fonderia e la zona di estrazione, in cui gli addetti lavorano incessantemente e meccanicamente secondo i serrati ritmi di riempimento e svuotamento degli autocarri.

“Gli uomini, le donne, l’ambiente, la natura sono rappresentati come sacrificio in nome di un progresso che, con un colpo di scena finale, si rivela inesistente”. L’illusione di trovare il paradiso, l’aspettativa di vivere quindi un “uscimmo a riveder le stelle” della contemporaneità dopo l’inferno di una vita di duro lavoro sempre svegli in una miniera attiva anche di notte e dopo il purgatorio inflitto dalla fatica e dalla sofferenza delle inevitabili malattie associate al lavoro si disintegra infatti nel momento in cui si svela che l’obiettivo è innalzare senza una razionale pianificazione futuristiche “città fantasma”, investimento dei proprietari delle miniere di carbone nel settore immobiliare.

Paradossalmente, mentre l’inquinamento acustico ed ambientale e la presenza di tante persone in movimento caratterizzano la miniera, queste spettrali distese di asfalto e cemento sono dominate dall’immobilità e dal silenzio e registrano una bassissima densità abitativa.

Ordos è una di tali cristallizzate megalopoli simbolo della contraddizione del capitalismo estrattivo: essa non solo non è la metropoli da un milione di persone per il quale sono stati costruiti grattacieli altissimi, servizi pubblici, monumenti di Gengis Khan conquistatore della zona in passato, ma non è nemmeno una città perché è completamente disabitata.

Ossimoricamente poi, la città in cui viene girato il film significa “Paradiso”.

La metafora infernale

D’altronde vari aspetti del documentario sono, come affermato dal regista, di derivazione dantesca: “nella Divina Commedia, Dante attraversa in sogno l’Inferno, il Purgatorio e il Paradiso. In Behemoth ho descritto un’enorme catena industriale, in cui i colori rosso, grigio e blu rappresentano rispettivamente i tre regni danteschi”.

Il rosso infatti è un riferimento non solo al sangue ma anche alla lava dell’inferno, e all’incandescenza delle viscere del sottosuolo delle steppe mongole in cui l’uomo è costretto a lavorare in condizioni insopportabili dalla mostruosa energia maligna; il grigio è il purgatorio di macchie, lividi, bombole e calli su mani segnate dal lavoro dei “musi neri”, che nascosti dietro alle loro inutili mascherine sono ridotti a fantasmi nei gironi infernali delle miniere.

I minatori sono tutt’uno col nero delle particelle di carbone che ne cancella l’identità. Essi non hanno né nome né voce, e i volti sporchi e muti sono svelati in primissimo piano solo dopo un’inquadratura posteriore. “La gente passa tutta la notte a spalmarsi trucco scuro… il risultato non dipende dal loro umore ma da come tira il vento”. Per quanto gli operai possano procedere a una pulizia, essa non potrà essere che superficiale.

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E in ogni caso la polvere continuerà ad essere inalata e a annidarsi nei polmoni, con l’effetto di esporli a gravi rischi di salute come la pneumoconiosi, che costringendoli a letto attaccati a una macchina li conduce all’annichilimento. Le miniere inoltre mietono vittime non solo fra i minatori, ma anche fra coloro che usufruiscono di falde inquinate da sostanze utilizzate per l’estrazione.

“In mezzo alla foresta di lapidi, forse ci sono persone che conosco, o che non ho mai visto, che stanno soffrendo o sono già libere, in questa passiva moltitudine ci sono anime tristi! Non c’è posto per loro, all’inferno!” , afferma nella prima sequenza una voce fuori campo, il Virgilio, che esordisce con un “amid, in the middle” come l’incipit della Divina Commedia dantesca.

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Il viaggio, altro topos ripreso da Dante, è profeticamente l’unica prospettiva per i pastori per sfuggire all’effetto dell’impatto ambientale delle attività estrattive.

Ma mentre in Dante il viaggio è percorso di purificazione e speranza, compiuto dal poeta universalizzando la propria impresa per tutti gli uomini, che espiano i propri peccati ripercorrendone idealmente il viaggio, “nel viaggio dantesco simulato nel film non c’è salvezza, ma insegnamento morale, un monito per gli spettatori di ogni latitudine del globo”. 

Sostenibilità e futuro del cinema

Sensibilizzazione degli spettatori che è un mezzo per diffondere i valori del rispetto ambientale: “il cinema è un veicolo eccezionale di stili di vita e di sensibilità e da diversi anni ormai le tematiche ambientali sono entrate a farne parte; il nostro scopo è valorizzare quelle opere e quegli artisti che lo hanno fatto in maniera più evidente ed efficace”, afferma Marco Gisotti, direttore del concorso.

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L’ottica è quella di produrre film sempre più attenti all’ambiente, orientando le scelte secondo una crescente tensione alla sostenibilità cinematografica: “credo che tutti dovremmo fermarci a riflettere dopo la visione di questo film, che non parla solo della Cina ma di tutti noi. Di come il lavoro e la produzione industriale non siano il fine ma il mezzo. Probabilmente ‘Behemoth’ è il film più politico di tutta la Mostra di quest’anno”.

Inoltre, in occasioni come il Green Day Venice, giornata della sostenibilità nell’industria cinematografica, si discute la possibilità della la creazione di un codice mondiale di produzione di film ecosostenibili per identificare film green sia per i temi trattati che per le modalità di produzione degli stessi (secondo criteri orientati a: minimizzazione dell’impatto ambientale, dell’uso di risorse, dei consumi energetici, delle emissioni e delle distanze, rispetto per la natura, efficacia della gestione dei rifiuti, riutilizzo anziché acquisto di materiale di scena….).

È una direzione che diventerà obbligatoria, perché “sono pochissimi i film che oggi possono sfoggiare certificazioni di produzione ‘green’, ma l’attenzione verso stili di vita più sostenibili è sempre più importante. In futuro un film che voglia raccontare una storia a sfondo ecologico dovrà essere coerente fino in fondo e dimostrare, attraverso adeguate certificazioni, non solo di non aver inquinato, consumato energia, sprecato cibo, ecc., ma anche di aver fatto qualcosa per migliorare l’ambiente”.

Per chi vuole vedere un estratto del film, un link al primo estratto di Behemoth.

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Floating Flower Garden, il giardino sospeso interattivo

Magica, sorprendente, onirica: è l’installazione “Floating Flower Garden” proposta dal TeamLab, collettivo giapponese guidato da Toshiyuki Inoko. I visitatori sono invitati a passeggiare in un eden botanico di 2300 orchidee fluttanti per diventare un tutt’uno con la natura. Petali, fiori e pistilli sbocciano silenziosi, mutando di ora in ora ed si animano alla presenza degli spettatori. Il giardino interattivo e in continuo movimento permette un’immersione totale, un percorso onirico in cui perdersi e ritrovare l’origine del tutto. Mazzi di orchidee colorano lo spazio, mentre profumi delicati e una musica soft risvegliano i sensi. L’installazione gioca un forte impatto sulle emozioni umane, un insieme di piaceri atavici che si fondono per suscitare sentimenti sereni e ricordare la potenza armonica della natura. Le orchidee Phalaenopsis, importante dall’Olanda, possono essere sospese in aria perchè piante in grado di assorbire acqua e nutrienti, senza aver bisogno del suolo. Collegate ad un sistema digitalizzato, si sollevano e si abbassano captando i movimenti dei presenti.

IL QR CODE NASCOSTO IN GIARDINO

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La cortina, infatti, scende lentamente quando i sensori avvertono l´avvicinarsi dello spettatore, perchè ne diventi il protagonista nello spazio emisferico creatosi. Se più persone si avvicinano le une alle altre, la cupola si allarga in un unico spazio. Appena, però ci si allontana dalla nicchia, i fiori scendono ricreando il denso baldacchino, dolcemente ondulato e coloratissimo.

L´installazione interrativa è stata presentata a Miraikan presso il “Museo nazionale di Tokyo della scienza emergente e dell’innovazione”, trasportata e nuovamente sospesa in occasione del Paris Design Week. La mostra, conclusasi a maggio, ha  riscosso un comprensibile successo. Come non rimanere estasiati dalla lenta danza di fiori in ascesa e discesa?

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Flowers and I are of the same root, the Garden and I are one´

(Io e i fiori abbiamo la stessa radice, il Giardino e io siamo un tutt´uno)

Il collettivo si ispira ad un Kōan zen, la breve fiaba “Il fiore di Nansen” che narra l’incontro tra un maestro e il suo discepolo. Come racconta Toshiyuki Inoko, nel XIII secolo un monaco zen lascia il suo ritiro meditativo sulla montagna alla ricerca del risveglio. Un giorno indica con il dito un fiore in un giardino: “Noi e tutto ciò che ci circonda siamo fatti della stessa sostanza, abbiamo la stessa origine”.

La morale della metafora buddista, trasposta nel labirinto botanico 3d dal collettivo, è che ogni ricerca delle origini ci riporta sempre alla natura. La serenitàe la meraviglia suscitata dal giardino pensile, prova la necessità di ripristinare il senso di unità con la natura e ricucire le relazioni con l´ecosistema

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Il giardino “sotto-sopra” presentato dal gruppo dei tecno-artisti, curatori anche dell´installazione nel padiglione giapponese dell´Expo, gioca sull´interazione tra emozione, tecnologia digitale e natura. La sorprendente, ma comunque artefatta, rappresentazione edenica, come tutte le installazioni di TeamLab, si rifà ai paesaggi mozzafiato esistenti in natura, come i tunnel di alberi intrecciati, i canopi di bamboo, le cortine di glicine e di ciliegi.

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Lavori in casa? Trova i professionisti su Fazland

Se il rubinetto gocciola, il tetto è ridotto a un colabrodo, hai voglia di levigare il vecchio parquet e non sai a chi rivolgerti, Fazland ti aiuta a trovare il professionista che fa al caso tuo. Con oltre 20mila aziende iscritte ed un sito web semplice ed intuitivo, Fazland ha rivoluzionato il mercato dei servizi, spostando su una piattaforma digitale il giallo elenco dei professionisti che si sfogliava per trovare chi si occupasse delle riparazioni al posto nostro.

In copertina: The tool and materials for sanitary work, di Dmitry Bodyaev via Shuttestock.

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Dopo i siti web per lo shopping online, anche i servizi per i lavori in casa hanno un loro spazio nella rete per aiutare a risparmiare tempo e denaro nei lavori di manutenzione delle nostre abitazioni.

La start up nasce per fare incontrare richiesta ed offerta di un mercato che fatica a spostarsi sul digitale. Chi è alla ricerca di un determinato tipo di servizio risparmia tempo e denaro, mentre i professionisti e le imprese del settore, talvolta non grandissimi, riescono ad ottenere visibilità e clienti senza costi fissi e senza spendere troppo tempo davanti al pc.

Perché passare a Fazland? Perché qualsiasi sia il tuo progetto, il portale risponde alle tue richieste in 3 semplici step e ti trova il professionista ideale per metterlo in pratica. Dopo la registrazione, basterà specificare la tua richiesta, confrontare la qualità delle offerte ricevute e scegliere aiutandoti anche con le schede informative dei professionisti a disposizione e delle recensioni lasciate da altri clienti. Fazland esamina per te i profili di aziende e imprese nella tua città e ti permette di confrontare online i preventivi di professionisti che hanno risposto alla tua richiesta di aiuto. Nella scheda delle imprese troverai tutte le informazioni necessarie a scegliere consapevolmente la migliore offerta sul mercato, la storia delle aziende, le loro certificazioni e le referenze. Una volta scelto il professionista, potrai fissare un appuntamento per il sopralluogo, e il tutto gratuitamente.

Un video esplicativo di come funziona Fazland.

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Fazland non è solo un portale di servizi per la casa, i servizi disponibili sul sito sono più di 300 e spaziano dal settore del lavori in casa alla cura della persona e la gestione della tua attività fino all’organizzazione di eventi: dal trasloco casa al commercialista, dall’installazione di un impianto fotovoltaico sul tetto ad un DJ per il matrimonio, compleanno o qualsiasi altro evento, Fazland sarà la tua mano destra e ti aiuterà a trovare i professionisti migliori per realizzare i tuoi sogni e progetti. 

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I pipistrelli urbani, bioindicatori dei ponti termici

Gli abitanti degli spazi urbani sono ormai poco abituati ad interagire con le specie animali, viste in genere più come molestie e vettori di malattie (zanzare, piccioni, passeri) che come componenti di un habitat, dotati di un ruolo ecologico a tutti gli effetti.  La mia vicenda cominciò con la difficile impresa di identificazione dell’intruso responsabile del deposito di escrementi, apparso sul mio poggiolo. Non essendo un biologo nè un veterinario pensai prima alle rondini, ma guardando in dettaglio le deposizioni, si intravedevano resti di ali di insetti mal digeriti. Eppure nessuna traccia di qualsivoglia pennuto. Piuttosto le tracce facevano pensare ad un animale simile ad un topo. Ma nessun roditore, per quanto ardito ed affamato potrebbe arrampicarsi in un muro liscio e perfettamente verticale fino ad un altezza di circa 7 metri. Il sospetto cadde dunque sui pipistrelli.

SERPENTI E RINNOVABILI: UN RETTILE ISPIRA NUOVE TURBINE EOLICHE

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Dove mai potrebbe rifugiarsi un mammifero volante in un terrazzo disadorno e privo di alcuna cavità consona alla sua natura? Sapendo che i pipistrelli prediligono spazi angusti, l’occhio si è focalizzato  su una fenditura di circa 3 cm fra il parapetto del poggiolo del vicino al piano superiore e la parete. Un ottimo riparo, sotto grondaia, inaccessibile ai predatori e… con “riscaldamento a parete” grazie alle inevitabili dispersioni di calore dei ponti termici, ed al calore solare accumulato durante il giorno, in quanto esposto a sud ovest.  Facendo attenzione era possibile distinguere una sagoma scura che a momenti sembrava muoversi, poteva essere anche un uccellino intrappolato, ma mi sembrava di intravvedere due orecchiette appuntite.  Per uscire dal dubbio, niente meglio che scattare una termografia. Grazie al sito dell’associazione di soccorso della fauna ho potuto capire che la temperatura corporea del pipistrello, come in tutti i mammiferi,  si aggira attorno ai 36 ºC, ma con una peculiarità: mentre dorme, la sua temperatura scende fino a 15-20 ºC, e durante il letargo invernale può raggiungere anche i 2 ºC. In questo modo l’animale risparmia energia, fondamentale per sopravvivere con una frugale dieta di qualche grammo di proteina al giorno, faticosamente ottenuta con otto ore di volo acrobatico.

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Foto 1: il punto rosso indica una temperatura di 28 ºC, segno inequivoco di attività biologica in corso (la termografia è stata scattata all’alba quando probabilmente l’animaletto era appena tornato dalla battuta di caccia e iniziava ad addormentarsi). Al crepuscolo fu possibile comprovare che in realtà si trattava di  tre esemplari. I compagni si sono svegliati, puliti meticolosamente e uno alla volta si sono librati in volo per la consueta battuta di caccia.

Pipistrelli: fauna specialmente protetta

Per coloro volessero approfondire lo studio di questi teneri animaletti, suggerisco il sito della Onlus Tutela Pipistrelli, dove troviamo un elenco di tutte le normative applicabili, nazionali e comunitarie. Risulta che la chirotterofauna italiana (cioè i pipistrelli, gli unici mammiferi in grado di compiere volo attivo) è tutelata dal 1939 con una legge che, già allora, ne impediva l’uccisione e la detenzione. I chirotteri, infatti, vengono considerati “bene indisponibile dello Stato” per cui nessuno può detenere, comprare o vendere pipistrelli, è vietato cacciarli e ucciderli.

I pipistrelli non si possono dunque prendere e piazzare in un luogo, loro scelgono liberamente i luoghi più confortevoli. Per la loro utilità ecologica, nel divorare importanti quantità di zanzare e altri insetti molesti, sono perciò considerati “fauna specialmente protetta”, ma è consentito offrire loro un riparo affinché nidifichino vicini a noi. Attualmente sono minacciati dal largo impiego di pesticidi dovuto all’ agricoltura “moderna”, e alla deforestazione crescente, ma la loro estrema adattabilità li ha portati a colonizzare gli ambienti urbani,  quindi noi tutti possiamo contribuire alla loro tutela.

Bat box: le casette per pipistrelli

In Svezia, uno dei 38 parametri per avere punteggio sufficiente per poter costruire nel quartiere ecologico di Vestra Hamnen a Malmö era precisamente includere cassette per pipistrelli nei progetti. Dal 2009 anche in Italia assistiamo ad una crescente sensibilizzazione delle persone nei confronti di questi animaletti, vittime in passato dell’ignoranza e le superstizioni, grazie ad un progetto dei ricercatori del Museo di Storia Naturale di Firenze per promuovere  l’installazione di bat box, cioè cassette speciali per pipistrelli. Disegnate in modo adeguato le casette possono offrire un ottimo ed invitante rifugio per aiutare le colonie  di pipistrelli a procreare e svernare in un ambiente antropizzato. A differenza dei nidi per uccelli, che consentono agli amanti del “fai da te” di sbizzarrirsi con varietà di forme e colori, le cassette per pipistrelli devono rispondere a certe caratteristiche dimensionali e costruttive che le rendano adatte ai particolari requisiti biologici dei chirotteri. Esistono due tipologie di bat box, quelle per pipistrelli arboricoli e quelle per pipistrelli “urbani”. La bat box più semplice è quella proposta dalla LIPU.  La cassetta per pipistrelli  progettata e raccomandata dal gruppo di chirotterologi del Museo Storia Naturale di Firenze  è adatta alla maggior parte delle specie italiane “antropofile”. I disegni costruttivi si possono scaricare dal sito. Quelli più pigri o poco propensi ai lavori in legno la possono acquistare per pochi euro nei supermercati Coop, i quali aderiscono al Progetto Bat Box, promosso dall’Università di Firenze, e contribuiscono in questo modo a finanziare la ricerca su questi affascinanti animaletti. Nel sito della Onlus Tutela Pipistrelli, invece, troviamo preziosi consigli su come installare correttamente la bat box, in quanto è necessario che si trovi ad almeno 4 m dal suolo, e lontana da alberi o pareti, perché i pipistrelli cercano sempre luoghi protetti dai loro potenziali predatori.

La bat box, anche se costruita e posizionata a regola d’arte, non necessariamente verrà subito colonizzata dai pipistrelli, poiché sono animali gregari e cambiano la loro dimora a seconda delle stagioni. Il seguente video illustra la sociabilità dei pipistrelli  con un semplice esperimento: due bat box uguali  vennero installate una accanto l’altra: la prima segnò il record di pipistrelli in un’unica bat box, con ben 86 esemplari, mentre la seconda rimase vuota tutto il tempo, forse per “l’odore da nuovo”.

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Dal 2009 le bat box installate in Italia sono migliaia, ed i dati forniti ai ricercatori dai tanti amatori aiutano a capire quali siano le abitudini dei pipistrelli.  Per esempio, otto  bat box installate in un posto apparentemente idoneo come il torrino del Museo di Science Naturali di Firenze, rimasero vuote per 3 anni prima di essere tutte colonizzate dai chirotteri. Per noi tecnici , abituati a vagliare schede di prodotti per l’edilizia, il video del prof. Paolo Agnelli fornisce uno spunto che forse è sfuggito agli zoologi: i pipistrelli sembrano non gradire i VOC (composti organici volatili). Infatti, sembra che preferiscano occupare i nidi che hanno perso “l’odore da nuovo”, tipico di  una cassetta in legno laminato come quella proposta dai ricercatori e commercializzata dalla Coop,  le cui colle, inevitabilmente emetteranno della formaldeide. Le bat box ideali forse risulteranno più attraenti per i chirotteri se realizzate in legno massello non trattato, o con pannelli di legno agglomerato con cemento o masonite, e piazzate in corrispondenza di qualche ponte termico. Nel siti web summenzionati sarà poi  possibile segnalare ai ricercatori se le casette da noi realizzate vengono colonizzate in poco tempo o meno. 

Con un po’ di fortuna anche uno squallido condominio potrà diventare più ecosostenibile ospitando qualche bat box, preferibilmente sulle facciate esposte a sud ovest.

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Paesi abbandonati in Italia: dove la natura riprende i suoi spazi

Paesaggi fantasma, paesi abbandonati, ruderi di una quotidianità interrotta. L’uomo con le sue città e le sue attività tende ad invadere sempre più il terreno naturale, occupando talvolta spazi che da sempre sono stati destinati a boschi e campagne. Stiamo parlando di confini urbani sempre più al limite delle campagne, di strade montane o costiere, di residenze e strutture ricettive in paesaggi poco urbanizzati e di interi centri abitati che si spingono vicino al mare o alle pendici dei monti, forse un po’ troppo vicino. 

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Tale modalità costruttiva e di occupazione del suolo ha talvolta portato a distruzioni di interi paesi e tragedie anche di grandi proporzioni, dovute a frane, allagamenti o altri eventi naturali incontrollabili.

È la natura che riprende i suoi spazi. I movimenti della natura, il suo impadronirsi di spazi prima urbanizzati non è sempre sinonimo di disastro: talvolta è un processo molto utile alla rigenerazione del paesaggio.

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Dopo un grave incendio boschivo ad esempio, di cui il nostro territorio soffre specialmente nelle regioni meridionali, la foresta viene profondamente danneggiata e con essa tutto l’ecosistema di fauna e flora. La natura non si ferma e fa ricrescere i primi alberi dopo una decina di anni. Un ritorno alla situazione di partenza invece è più lento e può richiedere anche periodi di tempo che si aggirano intorno al secolo. Se invece consideriamo il ritorno del bosco in zone prima rese pastorali o agricole i tempi si accorciano di molto.

Dopo 5-10 anni i campi e i sentieri nelle aree aperte vengono invasi dalle erbacce e parzialmente nascosti. Nei successivi 10 anni le strade sterrate diventano inutilizzabili, le radure e le aree aperte si riempiono di arbusti che rendono irriconoscibili i campi una volta coltivati. Trascorsi circa 50 anni dall’abbandono del territorio da parte dell’uomo il bosco è cresciuto e non restano che poche tracce del passaggio umano.

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I PAESI ABBANDONATI IN ITALIA

Nel corso della storia sono numerosi i casi di villaggi o intere città abbandonate dall’uomo che per le ragioni più varie si è spostato in altri luoghi a lui più congeniali. Storicamente noto è il caso di Pompei, abbandonata definitivamente dopo l’eruzione disastrosa che ha subito in epoca antica.

Molti però sono anche i casi di paesi abbandonati recentemente.

È il caso per esempio di Roscigno Vecchia, nel Cilento, fatta sgomberare agli inizi del novecento per la minaccia di una frana, oppure Pentedattilo in Aspromonte che ha visto iniziare l’abbandono alla fine del Settecento dopo un terremoto e che ora è un paese fantasma. Consideriamo ancora l’esempio di Resia, in Val Venosta, che ancora oggi vede riaffiorare dalle acque dell’omonimo lago il campanile del vecchio borgo.

In tutti questi luoghi un tempo abitati, la natura lentamente riprende possesso del territorio.

Dopo l’abbandono, il deperimento delle abitazioni è evidente: in qualche decina di anni cominciano a cedere, a partire dai tetti. Dopo un secolo le costruzioni umane, anche se un tempo solide e robuste, spesso rovinano al suolo e negli anni seguenti restano solamente i muri più imponenti o le costruzioni più resistenti come le opere di sostegno o i terrazzamenti, che hanno inciso in maggior modo sul territorio.

La natura quindi, prima o poi, riprende possesso dei propri luoghi, cancellando il passaggio umano.

Questo non deve essere una buona scusa per costruire ovunque e senza pensare alle conseguenze delle proprie opere che talvolta, come visto, possono portare a disastri naturali.

Anche la normativa italiana tenta di arginare i fenomeni di abusi edilizi in zone marine o montane ma anche di frenare pratiche come l’incendio doloso per speculazioni edilizie. Si cita a questo proposito la legge 428/1993 che vieta qualsiasi costruzione in zone boschive danneggiate da incendio e la loro conversione in aree a destinazione diversa da quella precedente l’evento.

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La serra verticale dell’Expo di Milano

L’ENEA, Agenzia per le nuove tecnologie, l’energia e lo sviluppo economico sostenibile, il 10 luglio ha inaugurato all’Expo di Milano una Vertical Farm, una serra verticale ecosostenibile alta quasi cinque metri in cui si riproduce l’agricoltura del futuro, in altre parole: pesticidi zero, km zero e consumo di suolo zero.

VERTICAL FARM: TUTTO QUELLO CHE DEVI SAPERE

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LA TECNICA IDROPONICA

La lattuga e il basilico, qui coltivati su dodici livelli, di un metro quadro ciascuno, secondo la tecnica della coltura idroponica (zolle di torba pressata e immerse totalmente in acqua con soluzioni nutritive a riciclo continuo), forniscono una produzione praticamente doppia rispetto alle colture tradizionali, passando da sei a quattordici cicli di raccolta all’anno per ogni livello e ottenendo un risparmio del 95% di acqua; solo due litri per un chilo di lattuga contro i tradizionali 40-45 litri!

Zero sprechi, zero rumori

A Expo, ogni tre settimane, si producono cinquecento piante di ottima qualità senza aver bisogno di grosse quantità di concime. La coltivazione a ciclo chiuso permette di non avere sprechi e di non produrre scarti o rifiuti, evitando sostanze inquinanti come pesticidi o fitofarmaci. La serra, in materiale multistrato su piani sovrapposti, è un prototipo di 3 x 3 x 4,5 metri di altezza, replicabile a livello industriale e non produce nemmeno rumori molesti, tranne un leggero ronzio. L’ambiente è chiuso da vetrate ed è completamente sterile, non entrano insetti e parassiti, perciò la qualità dei prodotti è eccellente.

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I led per la fotosintesi

Le piante crescono anche grazie all’uso di un sistema d’illuminazione artificiale a LED, altamente efficienti e a basso consumo. Le lampade a led a luce fredda, nelle colorazioni blu e rosse, sono in funzione per tutta la giornata e rappresentano il modo ideale per riprodurre le condizioni necessarie alla fotosintesi clorofilliana; l’anidride carbonica emessa è riassorbita dalle piante durante la notte quando i led sono spenti. I consumi energetici sono comunque elevati ma facilmente risolvibili con biomasse prodotte con il riciclo dei rifiuti urbani o utilizzo di energia da fonti rinnovabili.

La fertirrigazione

Ogni ora si attiva un ciclo d’irrigazione detto “a flusso e riflusso”, che eroga l’acqua per l’allagamento dei bancali, consentendo alle radici delle piante di assorbirla. Questo tipo d’impianto computerizzato si compone di un fertirrigatore, cioè un’unità di miscelazione che integra nell’acqua la quantità necessaria di sostanze nutritive e controlla periodicamente il PH e la salinità della soluzione.

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Tecnologia robotizzata

Il sistema è interamente robotizzato e la presenza dell’uomo è richiesta al minimo. Nella Vertical Farm di Expo il robot non è stato previsto, perciò ogni tre settimane un agronomo si preoccupa della produzione, della raccolta e del ricambio delle piante. Anche la climatizzazione è ottimizzata attraverso un impianto che verifica costantemente temperatura e umidità e tutto è collegato a un computer di controllo, anche per eventuali anomalie o blackout.

Il maggior vantaggio di queste tecnologie è poter produrre in paesi con caratteristiche climatiche molto diverse fra loro, essere un fondamentale contributo dove esistono problemi di scarsità d’acqua e di materie e abbattere i costi di trasporto.

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“Salviamo le coste italiane”: il dossier di Legambiente

Legambiente ha pubblicato nel mese di Agosto il dossier Salviamo le coste italiane che contribuisce a fotografare lo stato attuale del paesaggio costiero del territorio italiano. Il dossier fa seguito ad una serie di studi, condotti nel merito della campagna “Mare monstrum”, volti a identificare e quantificare le situazioni di maggiore criticità nelle diverse regioni, dovute alla eccessiva urbanizzazione.

SALVARE LE COSTE: I DANNI DI ABUSIVISMO

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QUADRO NORMATIVO

L’occasione per cui Legambiente ha sviluppato questo nuovo Dossier 2015 è stata l’approvazione della Legge Madia del 4 Agosto.

Il Codice dei beni culturali e del paesaggio prevede ad oggi che per costruire in zona costiera sia necessario ottenere una autorizzazione di carattere paesaggistico dalla Soprintendenza e non solo una autorizzazione del Comune di pertinenza. Con questa nuova riforma, trascorsi 90 giorni dalla richiesta di autorizzazione, senza risposta della Soprintendenza, scatta il silenzio assenso e la costruzione può essere messa in cantiere.

Se da un lato probabilmente la legge è volta a ridurre i tempi burocratici generalmente lunghi e a far smuovere gli uffici competenti, dall’altro rischia di portare ad una serie di autorizzazioni concesse a veri e propri ecomostri, solo per ritardi nella pubblica amministrazione.

In merito, il vicepresidente di Legambiente Zanchini dichiara: “Occorre cambiare le regole di tutela, che si sono rivelate del tutto inadeguate a salvaguardare i paesaggi costieri dalla pressione edilizia, e istituire un sistema di controlli adeguati e di condivisione delle informazione tra i Ministeri dei beni culturali e dell’ambiente, Regioni e Soprintendenze, Comuni e forze di polizia. Occorre poi completare la pianificazione paesaggistica, perché oggi solo Puglia, Sardegna e Toscana lo hanno fatto introducendo chiare indicazioni di tutela, attraverso un’intesa con il Ministero dei Beni culturali”.

LO STATO ATTUALE DELLE COSTE

Legambiente ha analizzato i processi di costruzione, legali o meno, nelle diverse regioni italiane e ha valutato come ci sia stato negli ultimi decenni un notevole aumento percentuale del suolo costiero occupato. La tabella riporta gli aumenti percentuali.

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Un caso emblematico è la Liguria dove su un totale di 345 km di il 65% del totale è stato modificato da interventi edilizi, specialmente riguardanti strutture legate alle attività portuali.

Nel Lazio risulta occupato il 63% della costa, di cui il 20% è stato urbanizzato dopo l’entrata in vigore della Legge Galasso. La maggior parte delle costruzioni sono residenze turistiche e seconde case.

Segue la Toscana con il 44% di suolo costiero occupato. Solo il 15% del suolo costiero totale risulta oggetto di tutela ambientale.

Situazione analoga in Abruzzo e Calabria, dove più della metà del suolo costiero è occupato da abitazioni di carattere temporaneo e turistico, la maggior parte abusive nel caso della Calabria.

In Abruzzo tali costruzioni costituiscono una vera e propria barriera tra il mare e il territorio circostante, impedendo la vista, l’accesso e la normale modalità di utilizzo delle coste.

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GLI OBIETTIVI DEL DOSSIER “SALVIAMO LE COSTE ITALIANE”

Nel Dossier recentemente pubblicato Legambiente pone alcuni obiettivi necessari per la salvaguardia del patrimonio costiero italiano.

Il primo obiettivo è una maggior tutela a livello normativo, come già accennato in precedenza.

Ulteriore passo è la riqualificazione della costa, ovvero la messa in opera di interventi concreti per migliorare, ove ormai non compromesso, il territorio.

Ripensare l’offerta turistica, adeguare le strutture spesso costruite senza attenzioni estetiche o qualitative, eliminare le strutture abusive, pianificare la mobilità di accesso alla costa sono tutti interventi necessari per tutelare il patrimonio costiero che è identitario del nostro paese.

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La stampante 3D da cui nascono piante

L’inchiostro è un miscuglio di fango, semi e acqua ed è in grado di imitare qualsiasi forma: dalla stampante 3d il composto organico s’inverdisce e produce nuova vita. Il progetto PrintGREEN nato nell’università di Maribor in Slovenia, sostituisce il vecchio motto “Think before you print” (Pensa prima di stampare) con “Print, because is green” (Stampa, perché è verde) mettendo insieme la creatività dei designer, la tecnologia 3d e l’amore per la natura.

STAMPA 3D CON ARGILLA E MATERIALI NATURALI

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I designer si trasformano in giardinieri del terzo millennio sostituendo al gesso e resine (inchiostri in continua evoluzione utilizzati per le stampanti 3d) un composto organico per oggetti viventi vegetali.  Le stampe sono definite al computer per forma e dimensione, si inumidiscono e diventano prati personalizzati.   

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Il progetto è una logica applicazione industriale dei bellissimi graffiti ecologici (moss graffiti) realizzati con il muschio, polvere di gesso, latte e altri materiali naturali da utilizzare per installazioni artistiche e  “pubblicità sostenibili.

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Inoltre gli oggetti creati dalla tecnologia 3d perdureranno oltre la moda e sperimentazione perché contengono principio e semi di vita. Basti pensare a prototipi, modellini architettonici (stupendi per i tetti giardino!) e arredi realizzati con questa tecnologia, in cui perso l’entusiasmo e motivazione originale invece di essere buttati via potranno portare verde in città.

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Concepito dagli studenti Maja Petek, Tina Zidanšek, Urška Skaza, Danica Rženičnik e Simon Tržan con la supervisione del professore Dušan Zidar, PrintGREEN ( in sloveno “Tiskaj Zeleno”) funziona con un portatile collegato alla stampante che rilascia, strato dopo strato, il composto marrone su un piatto. Gli oggetti tridimensionali realizzati per ora dal team sono testi, loghi verdi, vasi, riproduzioni di città e volti.

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Il team ha modificato la stampante CNC che eroga l’ “inchiostro organico” lungo l’asse z, incorporando nello strato ultimo i semi che germoglieranno. Verdi di stampa i nostri giardini portatili potranno facilmente seguire pattern arzigogolati, sensibilizzare aziende e privati ai temi ambientali e spostare le nuove tecnologie 3d verso materiali naturali e organici.

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Smart City e Social networks: di cosa si parla in rete?

Sui social networks si parla sempre di più di “smart city“. I social sono capaci di offrire una piazza di discussione molto ampia e sui vari Facebook, Twitter, Pinterest… intervenire è consentito ad un pubblico sempre più vasto. 

SMART CITY IN ITALIA: QUALI SONO LE CITTÀ PIÙ INTELLIGENTI?

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SOCIAL E SMART CITY

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Con uno studio condotto utilizzando gli strumenti di analisi della WelikeCRM, amcservices ha evidenziato 4 domande per capire come viene trattato il tema dagli utenti della rete e come questo sistema possa essere funzionale alla crescita delle smart cities, in relazione soprattutto ai cittadini, utenti primari del servizio.

  1. Cos’è per gli utenti italiani del web e dei social network una città smart?
  2. Cosa li incuriosisce quando si parla di città intelligente?
  3. Chi parla di smart cities in Italia e da quali zone del nostro paese?
  4. A quali argomenti a quali tematiche sono maggiormente interessati?

Quello che di importante emerge da questo studio non è tanto capire che idea hanno i cittadini sulla smart city, che spazia tra i concetti di sostenibilità, digitalizzazione condivisione ed inclusione sociale, ma quali sono i temi più sentiti, capaci di creare interesse e permettere quindi di affrontare l’argomento in maniera strutturata. Capire di cosa parlano le persone quando pensano al tema smart city diventa quindi fondamentale per la pubblica amministrazione e per le altre aziende per sapersi porre in modo corretto sul mercato, creando servizi che sono il risultato delle opinioni dei cittadini in qualità di utenti finali.

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A tale scopo sono state selezionate delle figure chiave capaci di influenzare ed individuare degli ambiti di interesse per creare e sviluppare una sempre più viva partecipazione attiva da parte dei cittadini. Gli influencers o influenzatori sono persone capaci di influenzare i pensieri e le decisioni delle persone grazie a commenti, articoli e opinioni che godono di una considerazione piuttosto alta. Non esiste un profilo specifico, la natura degli influencer può essere di vario tipo ed ognuno di essi è capace di imporsi in modo forte in base alle proprie peculiarità: si passa dalla celebrità, che viene seguita da milioni di persone per la sua fama, all’autorità, che esprime un parere molto forte e considerato autorevole, e ancora all’attivista, in grado di creare veri e propri movimenti. La funzione degli influencer risulta essenziale per promuovere azioni di comunicazione e politica sociale che mira ad arricchire non solo la pubblica amministrazione, ma anche quelle imprese che operano nei settori chiave dello sviluppo e della gestione delle smart cities.

A partire dai sei temi portanti individuati della commissione europea (economy, living, environment, mobility, people, governance) ecco come gli influencer attirano l’interesse dei cittadini:    

  • Ecologia 39%
  • Cultura 38%
  • Educazione 6%
  • Government 5%
  • Anziani 6%
  • Altro 6% 

È chiaro come i temi dell’ecologia e della cultura riescano a coinvolgere e ad interessare un maggior numero di persone rispetto ad altri e questo perché spesso si è parlato di smart city e di sostenibilità solo passando attraverso un’idea di rispetto dell’ambiente. Diventa quindi sempre più necessario sfruttare la figura dell’influencer per mettere in gioco tutte le tematiche importanti per lo sviluppo di un nuovo modello di città intelligente e rendere i cittadini consapevoli degli elementi che compongono un panorama il più completo possibile.

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La decrescita felice che impaurisce i governi

Cresce la  decrescita, racconta Serge Latouche, l’economista e filosofo francese che negli ultimi 10 anni ha fatto sì che il termine “decrescita” diventasse uno slogan fortemente critico e analitico nei confronti di alcuni fenomeni contemporanei. Eppure c’è ancora chi, come i nostri governanti, ne teme gli esiti. 

LA DECRESCITA FELICE NON È UNA BUFALA

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“La globalizzazione è mercificazione. Il libero scambio è come la libera volpe nel libero pollaio“, ha dichiarato Latouche.

Nel corso del festival della sostenibilità “Borgofuturo”, tenutosi a fine Luglio presso Ripe San Ginesio (MC), Latouche ha sviscerato le sue teorie circa i grandi temi attuali: dalla crisi economica a quella ambientale, dall’accordo di libero scambio fra Unione Europea e Stati Uniti e tanto altro. Perfino il significato dell’EXPO 2015 è stato approfondito: l’evento – secondo Latouche ma anche sentiti sociologi ed economisti del settore del cibo e di quelli affini – è una vetrina per le multinazionali che poco lascia alla visibilità e al progresso dei piccoli produttori.

Secondo Latouche è necessario che la tecnologia resti “uno strumento svincolato dalle logiche di mercato. Finché a finanziare la tecnologia saranno le grandi imprese multinazionali essa non potrà che rispondere ad esigenze diverse da quelle del progresso sostenibile di una società. L’evoluzione tecnologica può aiutare ad affrontare dei problemi, ma i grandi problemi di oggi sono di natura sociale, che nessuna tecnologia può risolvere”.

Non è ben visto dalla classe dirigente, ma a sorpresa, pare che Latouche abbia avuto dei riscontri positivi dal Pontefice circa le teorie sulla decrescita e questo è un segno di come le coscienze si stiano svegliando sul tema. In particolare è accaduto con l’enciclica di Papa Francesco ” Laudato Si”, nella quale ha incoraggiato a un cambio di modello, proponendo come soluzione proprio il movimento della decrescita.

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Un sistema economico per coltivare la felicità

Saper soddisfare i propri bisogni imparando a coltivare la felicità con quello che abbiamo a disposizione non è semplice vista la nostra mentalità prettamente concorrenziale. Come fare?

“Dobbiamo ricordare come siamo stati economicizzati […]”. Come discendenti degli antichi greci, noi abbiamo ereditato il sistema economico modificatosi durante il periodo dei grandi filosofi ed evolutosi nel periodo medioevale, divenendo poi la base di quello capitalista moderno. Sembrerebbe che lo stesso Aristotele avesse capito che continuando a usare quel sistema capitalista (se pure ancora arcaico) si sarebbe distrutta la società. Non è del tutto impossibile impostare un nuovo sistema economico, ma occorrerà molto tempo.

La crisi dell’Architettura e dell’Urbanistica

Nell’ambito dell’urbanistica, la situazione sta sfuggendo di mano ad Architetti, Urbanisti, Paesaggisti e professionisti del settore, questo perché loro stessi – secondo Latouche – hanno cercato e cercano tutt’oggi di porre rimedio al degrado in cui versano i centri urbani e l’ambiente, con tentativi che si sono rivelati vani, essendone spesso essi stessi spesso la causa. È mancato è stata un’analisi globale sul fallimento dell’Architettura e la lucida consapevolezza di doversi mettere anche contro la politica per sconfiggere alcuni stereotipi che impediscono all’Architettura di essere fatta in maniera positiva.

Cos’è la città in decrescita

“La città decrescente dovrebbe essere una città con una impronta ecologica ridotta, trattenendo un rapporto forte con l’ecosistema [una bio-regione]. Piuttosto di sognare la costruzione di città nuove, bisognerà imparare ad abitare le città in modo diverso”.

realizzare questa città non è semplice, perchè occorre educare i cittadini e non imporre logiche pre-confezionate. Bisogna partire da zero per costruire una società autonoma di decrescita. Esistono dei presupposti e dei programmi fra cui quello noto come programma delle otto «R»: rivalutare, ridifinire, ristrutturare, ridistribuire, rilocalizzare, ridurre, riutilizzare, riciclare. Sono questi otto target tra loro collegati che attivano una decrescita serena, conviviale e sostenibile. Chiamarlo “programma” è già fin troppo avanzato: con le otto R siamo al livello di ideazione, ma è essenziale partire da qualcosa di ben studiato.

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La città in decrescita, opposta a quella capitalizzata che i governi ci impongono, non è quindi la metropoli.

“Invece delle megalopoli attuali, bisogna immaginare una città ecologica, fatta di villaggi urbani dove ciclisti e pedoni utilizzano un’energia rinnovabile. Nella città decrescente, gli abitanti ritroveranno cosi il piacere di gironzolare, come sognavano Baudelaire o Walter Benjamin. Riapprendere di abitare il mondo è quindi un imperativo”. Facile a dirsi, ma come risolvere il problema del sovraffollamento? Sicuramente preferendo il recupero dell’esistente alla continua edificazione, essendo il tessuto urbano già saturo di edilizia. Occorre pensare a recuperare i vuoti urbani abbandonati e non credere che le città verticali siano una soluzione al problema perché i grattacieli sono energivori e altamente insostenibili per il nostro pianeta, anche quelli pensati per funzionare con le logiche della Bioarchitettura, sia per i costi e i tempi di costruzione che per la manutenzione e la loro gestione che abbassano notevolmente il loro ecovalore presunto.

Presente e futuro delle città decrescenti

Mentre si attende – non si sa se invano – il cambiamento di rotta dei governi a scala mondiale verso un comportamento più improntato verso i modelli della decrescita felice, numerosi sono gli attori locali che hanno intrapreso la via della decrescita, in maniera consapevole e a volte anche inconsapevolmente ma riconoscendone poi i risultati positivi.  A titolo informativo possiamo menzionare la rete delle città lente (le cosiddette Slow cities), le città in transizione (le Transition towns, il cui modello di crescita è probabilmente quello che maggiormente si avvicina ai presupposti della decrescita ), le Città Post Carbone.

Tutti questi tipi di città cercano soluzioni in previsione dell’esaurimento di energie fossili. In altre parole ricercano la resilienza che altro non è che la capacità di adattamento al cambiamento, utile alla sopravvivenza in qualsiasi condizione.

La città decrescente, primo passo verso una società di parsimoniosa delle proprie risorse, preserverà l’ambiente che è alla la base di tutta la vita. Non secondari saranno gli aspetti di rafforzamento dei rapporti sociali dovuti ad una solidarietà crescente e un livello di occupazione in ricrescita.

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Accessori sostenibili per la scuola

Si torna a scuola, riprende per molti una routine fatta di compiti in classe, interrogazioni e assegni per casa, oltre ovviamente a socializzazione, amicizia, divertimento e, perché no, attenzione alla natura, anche in classe, come sempre.

Abbiamo selezionato qualche accessorio di design utile per le giornate di scuola, che accompagni in modo sostenibile bambini e ragazzi nella nuova avventura che stanno per intraprendere. Si tratta di accessori sostenibili per la scuola come quaderni, matite, astucci per le penne e altri prodotti di cancelleria realizzati con materiali naturali, utili per educare al rispetto della natura sin da piccoli.

MATITE E COLORI DA PIANTARE

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Sprout è una matita da disegno realizzata con legno, argilla, grafite. Contiene al suo interno dei semi biologici in modo tale che, una volta finita, la matita può essere piantata e, dopo essere stata innaffiata, germoglia. Si può scegliere tra una diversa varietà di essenze tra cui timo, pomodoro, basilico e salvia. 

Acquista la matita che germoglia

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Sprout è disponibile anche in versione colorata: non solo una matita da disegno ma anche belle matite per colorare, da piantare una volta finite. Ad ogni colore è associata una piantina: verde per il basilico, azzurro per il non ti scordar di me, giallo per la calendula. 

Acquista il set di colori che germogliano 

QUADERNI E TACCUINI RICICLATI

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Rhino è un quaderno in carta 100% riciclata e di qualità che non solo favorisce il riciclo della carta ma lotta anche contro la caccia di frodo dei rinoceronti. 30 anni fa c’erano 70 mila rinoceronti nel mondo. Oggi ci sono solo 18 mila esemplari. Con l’acquisto dei prodotti Rhino contribuisci alla raccolta fondi per l’organizzazione “Save the Rhino”, che si batte per la salvaguardia di questi animali. 

Acquista il quadernone Rhino 

Anche Sterik propone un oggetto alternativo (anche se non altrettanto eco). Si tratta di un diario Settembre 2015 – Agosto 2016 con copertina realizzata per il 93% da prodotti naturali. Peccato per l’interno, su cui, oltre alla presenza di 10 pagine “a sorpresa” non sono disponibili specifiche informazioni sui materiali utilizzati. La copertina del diario, oltre ad essere realizzata con materiali naturali, è bianca perché personalizzabile con disegni, scritte e colori. 

Acquista il diario Sterik 

ALTRI ACCESSORI SOSTENIBILI

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Per ridurre gli oggetti usa e getta e favorire quelli che una volta acquistati durano a lungo, proponiamo una bottiglia termica molto resistente, realizzata in acciaio inox, da portare con sé a scuola, anche durante gite scolastiche o escursioni. Sostituisce la tipica e insostenibile bottiglietta di plastica, è riutilizzabile, mantiene fresca l’acqua grazie all’isolamento avanzato e non altera il sapore del contenuto. Disponibile in rosso, blu e rosa. 

Acquista Chilly’s Bottle 

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Sostituisce uno standard portapenne in plastica, è originale e divertente. Questo portapenne a forma di temperino è realizzato esclusivamente in legno ed acciaio. 

Acquista il portapenne 

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Per delle note veloci o lasciare dei messaggi agli amici prova i post it riciclati. Aderiscono allo stesso modo dei post it tradizionali ma sono realizzati con carta riciclata. 16 blocchetti colorati da 100 fogli ciascuno.

Acquista i post it riciclati 

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Infine un suggerimento per i più grandi, che già possiedono un cellulare di ultima generazione: è possibile proteggerlo dai possibili urti che potrebbe subire tra i banchi di scuola con una naturalissima custodia in sughero.

Acquista la custodia per iPhone  

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Riuso dei viadotti: due proposte progettuali

Tutte le attività dell’uomo consumano. Tutte le costruzioni, gli edifici e le infrastrutture occupano porzioni di suolo, che, irreversibilmente, una volta modificate, non potranno tornare alla loro funzione originale.Due progetti, discutibili e forse troppo futuristici, propongono il riuso dei viadotti autostradali per accogliere abitazioni e uffici, salvando spazio e collegando in verticale la strada al fondo valle.

IL RIUSO DI UN VIADOTTO DELLA SALERNO-REGGIO CALABRIA 

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Il consumo di suolo è una problematica che affligge tutto il globo, e radica, nel vecchio continente, le sue più antiche fondamenta. Le città oramai congestionate, spingono l’urbanizzazione e l’antropizzazione di aree sempre più marginali talvolta inadatte per uno sviluppo edilizio massivo. Questo processo oltre ad aumentare sempre più la distanza tra l’uomo e la natura, opera il consumo dei terreni che dovrebbero essere utilizzati in agricoltura per produrre il nostro sostentamento.

Quante persone reputano gli spazi e le aree verdi, caratteristiche imprescindibili da inserire all’interno di un centro urbano per caratterizzarne uno sviluppo sostenibile, e quanti sono disposti a rinunciarvi per fare spazio a un’infrastruttura che migliori la vita di tutti i giorni, gli spostamenti e le velocità di percorrenza? Sogno di non pochi a mio avviso dovrebbe essere quello di vivere in uno spazio ben servito, ma anche con molto verde, per una vita più salubre e in armonia con la natura.

Se ci atteniamo a queste prerogative, progettualmente, la risposta arriva da Ja Studio, che durante un concorso per l’utilizzo di energie rinnovabili, propone il riuso di un gigantesco viadotto e dei suoi piloni, inserendo tra questi alcuni piccoli edifici.

Secondo Ja Studio, i ponti e i viadotti, sono opere in calcestruzzo che allontanano le vicine città alle valli della zona. Da qui la loro proposta, quella di inserire case, uffici e locali commerciali su una rampa-piattaforma che collega il sedime stradale, al fondo valle, con l’obiettivo di recuperare lo spazio inutilizzato ma parzialmente costruito in un’opera di tale portata, e piazzare una paciosa e tranquilla vita in netto contrasto con la frenesia della sede autostradale.

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caption: in alto, il progetto per l'A3 Salerno-Reggio Calabria di Oxo Architects.

Oxo Architects invece propone un ambizioso progetto per riqualificare l’A3; trasformare un’infrastruttura dismessa in una città verticale, con case, negozi, e vari servizi su uno dei viadotti abbandonati della Salerno-Reggio Calabria.

Il progetto prevede di utilizzare strutture già esistenti evitando il depauperamento delle risorse esistenti, e almeno su carta, risulterebbe completamente autosufficiente. Impianti geotermici, fotovoltaici e solari termici garantiranno acqua calda e corrente, le acque grigie dovranno subire il processo della fitodepurazione e i gas perverranno dalla metanizzazione dei rifiuti organici. Gli spazi verdi e gli orti in progetto per le abitazioni, potranno attingere all’acqua piovana raccolta da grandi cisterne interrate tramite sistemi minuziosamente studiati.

Il Viadotto-Condominio funziona come un grattacielo al contrario, l’accesso non avverrà più dalla base ma dalla sommità – il vecchio sedime autostradale ospiterà i parcheggi privati – regalando ai proprietari degli appartamenti con immediata vicinanza all’ingresso, un’incredibile vista sull’ambiente circostante.

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Fortunatamente i due progetti rimangono, per ora, unicamente su carta, e se la pensate un pochino come me, riterrete opportuno pensare che il riutilizzo non è sempre la scelta migliore che si possa effettuare. Se il progetto ideato da Oxo Architects nel suo “piccolo” cerca di provvedere autonomamente al proprio sostentamento, parallelamente abbassa di molto il livello dell’abitare di un possibile fruitore. Il progetto può essere definito ecosostenibile in tutte le sue parti, ma è probabilmente l’idea a non esserlo affatto. Immaginiamoci solo per un secondo di vivere in un appartamento aggrovigliato come un parassita su un pilone di un viadotto dismesso. Quanti effettivamente sarebbero disposti ad abitare in un luogo del genere, in circostanze del genere. Per non parlare dell’elevato costo di realizzazione; verrebbero prodotti una serie di appartamenti con servizi annessi, accessibili solo a persone facoltose che per nulla al mondo rinuncerebbero al loro attico cittadino per trasferirsi letteralmente “sotto un ponte”. Se si vuole godere di un’incredibile vista del paesaggio limitrofo, perché non procedere all’abbattimento di questa infrastruttura così da ripristinare il paesaggio e il suo aspetto originale? Probabilmente come accade spesso, l’interesse di pochi è così elevato da riuscire a sovrastare i problemi che ci dovremmo porre per progettare il benessere di molti.

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Le case volanti: riqualificazione surreale dell’esistente

Si sono staccate da terra, chissà come e quando, e hanno preso il volo: sono le case di Laurent Chéhere, fotografa francese appassionata di “surrealismo”. Dall’hotel alla roulotte alla villetta piena di animali, tutte le case sono volanti, rimangono sospese nell’aria, alcune attaccate solo ai fili della corrente per non scappare via.

Fotografia e architettura: le opere di Dionisio Gonzalez

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Sono le Case Volanti dell’artista francese Laurent Chéhere che sogna di riqualificare a modo suo le periferie delle metropoli, spesso purtroppo degradate e abbandonate.

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Laurent vive a Parigi e ama rappresentare immagini di case volanti e altri tipi di abitazioni o oggetti che abbiano una funzione abitativa. Abitando nel quartiere della borghesia di Ménilmontant ha purtroppo da sempre concepito la società come divisa in due blocchi distinti: i ricchi e i non ricchi.

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Per ispirarsi l’artista ha peregrinato per i quartieri nascosti e più poveri di Parigi e preso spunto dalla cinematografia e dalla storia del suo paese cercando di far uscire queste case tristi dall’anonimato per aiutare chi le abita a raccontare la propria storia, reale o immaginaria, attraverso la raccolta di testimonianze. L’artista si è interessata ai pendolari in attesa alle affollate fermate dei mezzi pubblici, alla cultura africana trapiantata in questi edifici insalubri, alle periferie popolate dalle etnie zingare, dalla cultura nomade dei circensi di passaggio per i quartieri più periferici fino a quella degli occupanti degli edifici in stato di abbandono. 

Le sue opere hanno preso spunto anche è anche da alcune opere cinematografiche fra le quali il film Il palloncino rosso (del 1956 di Albert Lamorisse) e dalle vicende narrate da Hayao Myazaki (Il castello errante di Howl ). Le immagini, manipolate in maniera sia digitale che manuale, sono a dir poco affascinanti, raffigurano un mondo onirico in cui le case sembrano galleggiare in un cielo d’argento.

Le “Case Volanti” sono state volutamente riempite di animali, di oggetti e di persone, affinché ogni casa raccontasse visivamente una storia. Lo spettatore viene così spinto a chiedersi non solo come mai la casa stia volando via, ma anche dove sia diretta e chi ci viva dentro.

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Che cosa rende le Case Volanti delle case ideali, secondo Chéhere?

L’artista dice con semplicità di abitare in un edificio parigino, al sesto piano, senza ascensore. A suo parere, la casa ideale è da pensare volante e con un affitto dimezzato. Sicuramente una visione scherzosa ma non troppo lontana dall’esigenza di avere abitazioni vivibili e accessibili per tutti e con prezzi ragionevoli.

Laurent Chehere, nel suo progetto personale, ci regala una visione onirica, dove gli scorci suburbani fluttuano e fanno ripensare al viaggio, unico mezzo come fuga dai problemi. Alcuni di questi edifici inoltre si convertono in prigioni in fiamme, a testimoniare che spesso la fuga dalla realtà non è possibile!

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“Il rapporto architettura-ambiente nelle opere di Dionisio Gonzalez “

Dionisio Gonzalez, architetto e fotografo spagnolo, indaga approfonditamente il legame tra architettura e ambiente utilizzando la sua arte come azione sociale, tentando di offrire uno spunto di riflessione sui temi più attuali: dopo la sua serie intitolata Inter-acciones del 2013 con immagini in bianco e nero in cui sono rappresentati edifici collegati al suolo per mezzo di radici – attraverso le quali trarre le necessarie risorse dalla Terra – la sua ultima serie Trans-acciones vuole nuovamente approfondire il tema dell’architettura sostenibile.

RITRATTI DI CITTÀ: HONG KONG 

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Quello dell’architetto e del progettista è un mestiere di grande responsabilità nei confronti della società considerando il ruolo chiave che egli ha nei processi di trasformazione, valorizzazione, conservazione del territorio, del paesaggio e, in generale, dell’habitat antropico. Il tema del rapporto tra architettura e ambiente è pertanto estremamente delicato ed in questo periodo storico più che in ogni altro, non può più essere trascurato.

Le immagini dell’architetto spagnolo propongono dei progetti avveniristici, quasi surreali, con proprietà estetico-formali estremamente differenti tra loro ma con una caratteristica comune: abitazioni di “rietveldiana” ispirazione (Trans-acciones 7), luoghi di lavoro e dischi volanti (Trans-acciones 2) cercano tutti di limitare il consumo di suolo, poggiando su pilastri in cemento armato – o su altri elementi dal design strutturale sofisticato – che li elevano minimizzando l’impatto sul paesaggio naturale.

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L’elevazione costituisce uno svuotamento del piano basamentale in cui fluisce visivamente  il paesaggio: dall’esercizio progettuale più semplice a quello più articolato e contorto, i “vuoti” – non solo al piano terra ma anche le bucature e le trasparenze – dimostrano quale valore aggiunto possa dare la continua interazione tra natura e sistema architettonico.

Questo effetto viene amplificato se si considera che il panorama circostante non è sempre un luogo ameno bensì uno scenario ambiguo e senza caratteri distintivi particolarmente significativi, che viene però esaltato dal rapporto che si crea con le costruzioni.

Nelle sue immagini Gonzalez inserisce un osservatore, curioso quanto stupito dalle architetture artificiose, chiave per la comprensione dell’opera: sembra quasi che l’artista voglia stimolare l’immaginazione di un secondo osservatore, al di fuori dell’immagine, fino alla comprensione del pensiero e delle sensazioni del primo sul rapporto tra la costruzione e l’ambiente circostante. 

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