Non auro sed ferro: mostra di Alessandro Carnevale a Savona

Su lastre di ferro, alluminio e acciaioAlessandro Carnevale incide scenari post-industriali, relitti romantici e archeologie incandescenti . Dal 19 marzo al 16 Aprile è proprio la sua città, Savona, ad ospitare la mostra “Non auro sed ferro”: 40 opere ricoperte di ruggine e acidi realizzate sugli stessi scarti delle fabbriche dismesse. La location è eccezionale, le Cellette del Priamar, fortezza del 1542 che sorge sul promontorio ligure e abbraccia mare e monti, città e porto. Sulle tele del giovane ligure emergono bagliori puntuali su sfondi scuri, accurati dettagli di travi e lunghe finestrature che ci riportano agli anni della produzione industriale. E quindi, alle lotte sociali, alla manodopera specializzata, all’architettura che sperimenta e che produce in cicli settorializzati.

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All’ombra di Priamar, ora cittadella d’arte, sorgevano le fonderie di Savona con 130 anni di storie di successo, bancarotte e manifestazioni in piazza. L’epilogo “scandaloso”, come anche in altre città italiane ed estere, si può riassumere nella dismissione, abbandono e parziale demolizione: le ruspe della speculazione edilizia hanno risparmiato qua solo una delle sei ciminiere, tre capannoni e l’ex-edificio della direzione.

Il tema coerente e ossessivo dell’intera produzione di Alessandro Carnevale è ritrarre i relitti dell’era industriale in maniera drammatica e penetrante, al contrario delle fredde fotografie dei coniugi Becher e di Basilico. Travi reticolari in successione, ciminiere e silos che si stagliano imperturbabili come simulacri arrugginiti in paesaggi fumosi e acidi, dove si scorgono confortanti luccichii e simmetrie perfette. Sono gli stessi scenari in cui l’autore è nato e cresciuto, che hanno segnato tre generazioni, acceso classi operaie e visto lo sviluppo locale, riassetti delle fonderie e degrado dell’area.

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“Non auro sed ferro recuperanda est Patria” , ovvero “Non con l’oro ma con il ferro delle armi si salva la Patria”.

Il titolo della mostra è l’incipit dalla celebre affermazione di Marco Furio Camillo, in risposta al riscatto chiesto dai Galli per lasciare Roma. Se non per i materiali che usa l’autore, la collezione in realtà non ha niente a che fare con la citazione, lotte tra popoli e riscatti mancati. Più che prendere in prestito l’espressione, Alessandro Carnevale vuole proporne una personale reinterpretazione. La libertà del popolo è intesa, si legge nel comunicato stampa, come …. una patria che si difende col ferro del lavoro e del conflitto, anche ideale. E oggi più che mai è minacciata dall’oro del profitto, dell’instabilità liquida, della globalizzazione sregolata. Che non a caso vede nell’archeologia industriale non un patrimonio simbolico ma solo grandi cubature, grandi affari’’.

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Da tempo è stato riconosciuto il valore archeologico e sociale dei siti industriali dismessi. In Italia però, al di là di alcuni esempi virtuosi a Torino e Firenze Novoli, il mancato accordo tra soggetti privati e pubblici, i costi proibitivi delle bonifiche e il collasso del sistema finanziario hanno bloccato moltissimi progetti di riconversione. Le ciminiere, i silos e i tralicci di Savona, Bagnoli e Taranto, tanto per citarne alcune, testimoniano la storia delle fabbriche e degli smisurati distretti industriali passati attraverso periodi floridi, lotte di partito e delocalizzazioni. Oggi su un territorio deturpato e fortemente edificato, sono simboli ingombranti di disastri ambientali, truffe e spreco delle risorse pubbliche.

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L’inesorabile e “scandalosa” parabola del ferro e dei suoi centri produttivi (Scandalo metallico” è il titolo della sua precedente mostra curata da Del frate) se non può essere salvaguardata dovrà, perlomeno, secondo Carnevale, essere testimoniata con gli stessi materiali e processi lavorativi del nobile materiale, tristemente soppiantato da plastiche e resine.

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Marine che specchiano gru e piattaforme e notturni costellati dalle luci fredde delle centrali. Le tele, scatti di audaci prospettive e visioni rarefatte, mostrano reverenza verso le fabbriche dismesse, le ex cattedrali del lavoro operaio che, al pari delle fortezze e delle chiesi romaniche, sono entrate a far parte della memoria collettiva e del paesaggio autoctono.

Sul ferro nero, alluminio anodizzato e acciaio grezzo, i dipinti vengono fuori da combustioni e smalti industriali, dall’irrorazione di acidi e soluzioni chimiche. La tecnica non è solo mezzo rappresentativo, ma assieme al Tempo, ne è protagonista, cangiante e grezza, rottamata e depauperata come i soggetti disegnati. La collezione ripropone laconica immagini lunari e atemporali, in cui l’assenza dell’uomo e di qualsiasi attività lasciano pensare all’immobilità, all’attesa di ruspe e progetti avveniristici.

Lungo le banchine dei pontili, all’interno di giganteschi depositi e ciminiere altissime, alcuni possono ricordare aneddoti della propria vita, delle guerre, del tempo in cui si sfruttavano collegamenti e risorse del territorio. Le fabbriche si ergevano come roccaforti pulsanti della produzione senza sosta, e riunivano collettività per lo svago e per conquiste sociali, come il lavoro femminile e i diritti degli operai.

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A ben vedere, le aree industriali sono state forse le prime, le più evidenti, a perdere funzione e significato. A zuccherifici, birrifici e pastifici, si sono aggiunte caserme, ospedali, macelli, porti e aree ferroviarie. Quartieri e palazzoni anni ’60-’70, ex-cinema, teatri ma poi sarà il turno dei centri commerciali, di desueti grattacieli rotanti o edifici multifunzione certificati. La città continuerà ciclicamente a lasciare “buchi neri” e a dismettere aree più o meno grandi con cui dovrà relazionarsi e stabilire limiti a cambiamenti, che non siano dettati solo da logiche di profitto e dal profitto di pochi, ma in cui si preveda la salvaguardia della memorie storico-culturale collettiva.

Le fabbriche dismesse, da simboli decaduti di città e di interi bacini industriali, sono diventati landmark di aree da riqualificare; in molte città europee come Amburgo e Marsiglia, sono state convertite in expo, loft e ristoranti. La storia delle città è fatta di ripensamenti, sovrascritture, abbattimenti e mode passeggere. È necessario scegliere continuamente cosa salvare e cosa distruggere, in bilico tra una coscienza immemore che specula e abbatte in nome di una sostenibilità certificata e una coscienza conservativa che ricuce, recupera e limita il nuovo.

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L’opera di Carnevale, in un periodo di gentrificazione ma anche di riconversioni di bunker, cimiteri di locomotive e vecchi aeroplani, ricorda come la salvaguardia di alcune preesistenze sia necessaria per la definizione della città contemporanea stratificata.

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Interventi per il risparmio energetico: come trovare la ditta più adatta

Contenere i consumi per risparmiare energia e denaro e ridurre la nostra impronta ecologica non è più un miraggio lontano. Che si ricorra a impianti all’avanguardia o al verde per il contenimento delle dispersioni, molti sono gli interventi e le soluzioni che contribuiscono al risparmio energetico tra le mura domestiche e gli incentivi per finanziarli ricorrendo alla ditta più adatta.

In copertina: Housing, green background, di Beeboys via Shutterstock.

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A richiedere a gran voce un aiuto concreto per fronteggiare i consumi tra le mura domestiche sono ovviamente i cittadini, in particolare quelli delle fasce medio basse, più colpiti in caso di rincari in bolletta. Secondo Norbert Lantschner, presidente della Fondazione ClimAbita e responsabile dell’area Green Habitat al Saie: “Le famiglie italiane, stressate dai costi sempre più elevati dell’energia, sono alla ricerca di sistemi che diano l’opportunità di ridurre le voci di spesa per riscaldare, raffreddare e illuminare gli appartamenti”. Che si pensi ad un impianto che ci aiuti nel risparmio, o all’impiego del verde, quale modo migliore di ridurre la spesa energetica se non quella di ricorrere a interventi progettuali che seguano criteri sostenibili? Quale strategia adottare per rendere più efficiente la nostra abitazione?

Le risposte sono molteplici, perché dipende in primis dallo stato in cui versa l’immobile e dai suoi consumi. Se la nostra casa è davvero ridotta a un colabrodo, per ottenere un vero risparmio energetico futuro è probabile che si debba chiedere l’intervento di una ditta specializzata per intervenire su molti fronti, a partire dalla coibentazione delle pareti domestiche fino alla sostituzione degli infissi con serramenti più performanti.

Il contributo del verde per il risparmio energetico

Riscaldare la casa in inverno e raffrescarla d’estate. Questi sono alcuni dei bisogni più comuni per una vita confortevole tra le mura domestiche. Richiesta ulteriore degli inquilini di un immobile sarà quella di ottenere tutti i benefici di una casa che risponda alle variazioni climatiche esterne a costi ridotti e senza incorrere in costosi lavori per i nuovi impianti di riscaldamento e raffrescamento.
Una soluzione, sicuramente green e meno invasiva, consiste nel ricorso al verde. I tetti giardino e i green walls (ovvero le pareti verdi) sono un’ottima soluzione per contenere i consumi energetici domestici e garantire il risparmio energetico.

I tetti giardino, o green roof, contribuiscono ad aumentare l’inerzia termica: durante l’inverno il manto verde contiene le dispersioni, mentre d’estate evita l’innalzamento della temperatura all’interno dell’abitazione. Altri vantaggi di questo pacchetto in copertura sono l’aumento dell’isolamento acustico dell’edificio, la capacità del verde di assorbire CO2 e filtrare l’aria inquinata, e l’assorbimento graduale e il filtraggio dell’acqua piovana per non caricare l’impianto fognario.

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Realizzare una parete verde per il risparmio energetico della casa è molto più semplice. Pannelli in PVC e feltro costituiscono il supporto su cui cresceranno essenze rampicanti che aiuteranno a mantenere costante la temperatura interna, contenendo le dispersioni di calore in inverno e il riscaldamento eccessivo delle pareti durante l’estate. È innegabile inoltre il valore estetico di queste pareti vegetali che bilancia il minimo contributo delle green wall al contenimento della trasmissione di rumore.

Molte indicazioni su questi ed altri interventi si trovano già in rete, ma la difficoltà maggiore consiste nel trovare la ditta migliore che sappia rispondere ai nostri problemi. Il portale web eTerra.it, specializzato nel risparmio energetico della casa, è un ottimo alleato per chi vuole informarsi sulle normative vigenti e tenersi aggiornato delle tecnologie legate all’edilizia sostenibile. Oltre ad articoli dedicati all’approfondimenti di varie tematiche legate al risparmio energetico, il sito mette in contatto diretto gli utenti e le aziende più competenti. Un’apposita sezione dedicata alle ditte permette loro di registrarsi gratuitamente e di essere facilmente reperibili in base alla zona di attività e all’area di competenza. Gli utenti in cerca di soluzioni potranno richiedere fino a 5 preventivi in base al servizio e all’intervento richiesto per lavori di edilizia, progettazione, ristrutturazione ed impiantistica. 

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Progresso digitale: quale futuro per la professione dell’architetto?

Le nostre vite, oggi, sono estremamente diverse da quelle di un secolo fa. Solo una decina di anni fa, l’umanità è stata stravolta dal progresso digitale e dalle tecnologie “smart”. I tablet e gli smartphone sarebbero stati fantascienza un decennio fa, ma oggi con un solo tocco riusciamo a controllare e a gestire gli spazi all’interno delle nostre case, le nostre auto, ecc. Nel prossimo secolo molto probabilmente, questo cambiamento sarà esteso anche a livello territoriale e ambientale, in modo da permettere all’uomo di essere sempre più parte dell’ambiente che lo circonda. Quale futuro aspetta allora la professione dell’architetto?

In copertina: Echoviren, installazione architettonica stampata in 3D dello studio Smith|Allen per Project 387 a Gualala (California). 

LE STAMPANTI 3D E IL MONDO DEGLI ARTIGIANI DIGITALI

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Nella cultura popolare, la città del futuro viene immaginata come una realtà fantastica, ma resa allo stesso tempo terrificante dall’insieme di quelle eccezionali tecnologie che le domineranno.

Uno studio dell’università di Oxford, a cura dei proff. Frey e Osborne (Oxford Martin School e Citi GPS) valuta il possibile impatto delle nuove tecnologie e delle scoperte in ambito tecnologico nel mondo del lavoro. La trasformazione digitale offre indubbiamente molte opportunità ma anche molti rischi.

La professione dell’architetto tra 100 anni

Molti architetti – come Vincent Callebaut – e creativi, da qualche anno hanno iniziato ad esprimersi attraverso render e disegni suggestivi per trasmetterci la loro visione futuristica. Secondo alcuni saremo in grado di andare in vacanza portando con noi la nostra casa, che si potrà spostare tramite enormi droni, secondo altri, invece di concorrere a realizzare grattacieli alti oltre un miglio, ricercheremo nel sottosuolo e nei fondali marini nuovi spazi per costruire la nostra dimora. Le persone arriveranno a scegliere l’Earth-Scrapers che più si accosta alle proprie esigenze arrivando ad abitare oltre 25 piani sottoterra.

In rete si possono trovare riferimenti a case sott’acqua in vendita a Dubai, ma nel futuro, queste saranno solamente luoghi comuni che verranno surclassati inesorabilmente da quelle che diventeranno le nuove città sottomarine, equipaggiate con pelli protettive ultra tecnologiche che assimilano energia pulita dagli elementi circostanti.

caption: © REX/Shutterstock

caption: © REX/Shutterstock

La stampa 3D per l’architettura

La maggior parte delle attrezzature, degli oggetti e degli strumenti che l’architetto utilizzerà per la professione nel mondo del futuro sarà stampata digitalmente; infatti, quello che avrà uno sviluppo oltre ogni misura sarà la capacità di produrre autonomamente, con stampanti 3D, gli oggetti che ci servono. Ad oggi, dopo il boom delle prime vendite, questa tecnologia è utilizzata per la cosiddetta progettazione scaricabile. I possessori di stampanti 3D, frequentemente, utilizzano queste macchine per stampare modellini che si trova in rete, spesso fatti da altri designer, giusto per “provare a stampare qualcosa”. Nel futuro queste ci permetteranno di stampare intere abitazioni, moduli abitativi di emergenza, arredi, accessori. Tutto verrà integrato a sistemi domotici che ci permetteranno, tramite un solo tocco, di cambiare modello o colore, di parte, o dell’oggetto desiderato.

caption: Lloyd Alter/CC BY 2.0

Seppur in maniera relativamente limitata, le macchine a controllo numerico, per oltre 30 anni, ci hanno permesso di realizzare design particolari, dagli oggetti/arredi alle finiture. Queste, con il passare del tempo, hanno annunciato l’era della produzione digitale, dove l’input umano è limitato alla redazione di un disegno a computer che viene poi convertito automaticamente in un oggetto fisico dalla macchina utensile.

caption: Lloyd Alter/ Instant kitchen/CC BY 2.0

Il progresso digitale e il passaggio dalle macchine utensili a controllo umano a quelle con controllo computerizzato avrà un impatto ambientale a livello mondiale? L’automazione ha sempre avuto un costo energetico maggiore rispetto a quello della meccanizzazione. E la storia ha insegnato quanto il passaggio dalla movimentazione animale a quella che utilizza combustibile fossile, ha inciso sull’inquinamento dell’intero pianeta. Un paragone un po’ azzardato ma che può rendere l’idea. 

Sicuramente queste nuove macchine, maggiormente energivore rispetto alle precedenti, compenseranno il loro consumo di risorse attraverso il maggiore livello di efficienza, l’incremento di produttività e il considerevole risparmio di materie prime che viaggerà parallelamente alla quasi completa eliminazione degli scarti.

Architetti o computational designers?

Secondo Arturo Tedeschi – architetto, ricercatore, computational designer e pioniere dell’architettura parametrica – nei prossimi decenni, il ruolo dell’architetto verrà completamente stravolto. Molte università stanno – poco per volta – aggiornando la propria offerta formativa per cercare di arrivare a formare i professionisti di domani che saranno inevitabilmente un connubio tra architetti e computational designer. La figura classica dell’architetto rimarrà, ma diventerà molto più di nicchia. Per questo finchè possibile dobbiamo prepararci, formarci e utilizzare al meglio tutti questi strumenti di nuova generazione che un domani saranno probabilmente la quotidianità.

La Digital Fabbrication ad oggi è già stata impiegata in ambito aerospaziale (Rolls-Royce ha stampato in 3D un componente incorporato nel motore di un Aereo Trent XWB-97 del diametro di 1.5 metri e dello spessore di 50 cm) in campo edilizio, uno studio inglese già realizza abitazioni con elementi lignei ritagliati da macchine a controllo numerico tenendo conto anche dei fattori climatici e ambientali, e nel campo del design con accessori come vestiti e scarpe interamente stampati in 3D (Ilabo by Ross Lovegrove e Arturo Tedeschi e Flames by Zaha Hadid)

caption: Il più grande elemento per volare mai stampato in 3D - Rolls Royce

caption: Facit Homes Limited © 2016

caption: Ilabo by Ross Lovegrove

caption: Flames by Zaha Hadid

La potenza della condivisione

Per certi design il tempo di studio risulta più elevato rispetto a quello necessario per altri, dipende dal campo di applicazione e dal risultato a cui si vuole raggiungere. La cosa positiva di questa rivoluzione digitale, a mio parere, consiste nella condivisione. Le informazioni e i progetti si condivideranno alla stessa velocità con la quale oggi si copia un mp3 sul proprio dispositivo portatile, facendoci dimenticare i vecchi tempi del design scaricabile e dell’era della scarsa ed inefficiente produttività digitale.

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L’altalena che rende l’acqua potabile

In Corea del Sud, i ricercatori dell’Università di Hanyang hanno progettato un’altalena capace di estrarre acqua dal sottosuolo e purificarla per renderla potabile. Il problema della carenza di acqua potabile, una risorsa vitale, è purtroppo sentito da molte popolazioni. Secondo un rapporto dell’UNESCO, entro il 2030 il mondo dovrà affrontare la perdita di ben il 40% delle risorse globali di acqua potabile, in uno scenario generale in cui i cambiamenti climatici sono alla base di questo problema. 

CRISI GLOBALE DELL’ACQUA: UN PROGETTO D’ARTE PER SENSIBILIZZARE

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Nel caso dell’Africa le cifre sono ancora più preoccupanti. Si stima che molte donne impegnino fino a quattro ore al giorno per la ricerca e per il trasporto di acqua, un compito gravoso reso ancora più duro dal trasporto effettuato totalmente a piedi. 

Ad oggi circa il 36% del totale della popolazione mondiale non ha accesso a fonti di acqua potabile e questo è causa di epidemie e decessi per disidratazione.

Oltre all’altalena ideata in Corea  del Sud, negli ultimi anni sono stati brevettati diversi sistemi per estrarre e raccogliere l’acqua potabile purificandola, ed è stata anche ideata una serra che permette alle piante di crescere in pieno deserto, ma tutto ciò non è ancora sufficiente a risolvere il problema della carenza idrica nei paesi del terzo mondo

L’altalena per estrarre acqua potabile

Un’altra iniziativa per quanto riguarda questa difficile realtà è “OasiSaw”, un sistema innovativo che sfrutta l’energia prodotta da un meccanismo a bilanciere per estrarre acqua dal sottosuolo. 

Il dispositivo, utilizzabile come un gioco anche dai bambini, produce energia per alimentare una pompa per estrarre l’acqua da falde sottoterranee. Inoltre la pompa di cui fa parte il sistema è dotata di filtro per depurare l’acqua e renderla potabile.

L’altalena, progettata da Jin Hyuk Kim dell’Università di Hanyang (Corea del Sud), fa sì che si generi un flusso d’acqua grazie all’attivazione di una turbina che spinge l’acqua in un tubo collegato a sua volta con un rubinetto.

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Il flusso passa prima in un microtubo di carbonio che agisce da filtro per rimuovere virus e batteri: in questo modo si ottiene acqua potabile, senza bisogno di trasportarla a mano per lunghi tratti.

Questa invenzione consente di recuperare una fonte di vita coinvolgendo allo stesso tempo dei bambini nel processo di recupero che simula un gioco.  

Un tubo che si estende sotto il piano di calpestio può essere pressurizzato con questa tecnologia intelligente, e un’ora di attività sull’altalena Oasi Saw potrebbe fornire, filtrandola, abbondante acqua depurata per un cospicuo numero di persone assetate.

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Aiuti di Stato: come accedere ai finanziamenti in materia di energia e ambiente

Recentemente, molte camere di commercio hanno messo a disposizione un vademecum per orientare, sia le pubbliche amministrazioni che i beneficiari, sull’offerta e le modalità di accesso ai finanziamenti mirati al rilancio dei settori in crisi in linea con la Strategia Europa 2020. Vedremo brevemente la definizione di Aiuti di Stato, a chi sono destinati e come accedervi in particolare per i settori dell’energia e tutela ambientale.

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Cosa sono gli Aiuti di Stato (State Aid)

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Innanzitutto, ricordiamo che la politica in tema di aiuti, la c.d. SAM (EU State Aid Modernisation), si prefigge tre obiettivi principali in linea con la strategia “Europa 2020” che riassumiamo:

  1. Rafforzare una crescita sostenibile e intelligente in un mercato interno competitivo;
  2. Focalizzare il ruolo della Commissione europea (CE) sulla valutazione ex ante degli aiuti col maggior impatto sul mercato interno e incrementare il ruolo degli Stati membri nel controllo degli aiuti concessi ai sensi di “de minimis” e dei regolamenti di esenzione;
  3. Semplificare le regole per velocizzare il processo decisionale.

Per quanto riguarda l’ordinamento italiano, novità significative sono contenute nella L.234/2012, entrata in vigore nel 2013. La disciplina comunitaria riguardo allo State Aid (artt.107 e 108 del Trattato sul funzionamento dell’UE) ha tra i suoi principali obiettivi quello di garantire la libera concorrenza e quindi di favorire lo sviluppo del grande “Mercato Unico Europeo”, stimolando la crescita equa delle Piccole Medie Imprese (PMI) rispetto a quelle grandi.

In generale, per Aiuto di Stato s’intende un’agevolazione concessa dallo Stato (senza un corrispettivo, al lordo di imposte e altri oneri), a un numero determinato di soggetti economici (beneficiari).

L’aiuto economico, come vedremo, può assumere forme molto diverse tra loro, ad esempio:

  • un contributo a fondo perduto,
  • un finanziamento a tasso agevolato,
  • uno sconto sul valore di un immobile pubblico venduto,
  • un’esenzione da imposte o tasse,
  • un investimento con capitali di rischio pubblici,
  • un incentivo.

Gli aiuti devono essere compatibili con il mercato interno per ovviare distorsioni nella competitività. Pertanto, la CE ritiene compatibili solo gli aiuti che rispettano ciascuno dei seguenti criteri:

  1. Contribuzione a finalità di interesse comune;
  2. Necessità dell’intervento statale;
  3. Appropriatezza della misura;
  4. Proporzionalità;
  5. Trasparenza dell’aiuto;
  6. Assenza di rilevanti effetti negativi sulla concorrenza e sugli scambi commerciali fra i paesi membri.

In sintesi, distinguiamo tre diversi tipi di aiuti:

  • a finalità regionale,
  • settoriali,
  • orizzontali. 

Di seguito, ci limiteremo ad approfondire il tema degli Aiuti di Stato settoriali nei quali sono compresi gli aiuti all’energia e alla tutela dell’ambiente, mentre per le categorie di tipo orizzontale rimandiamo al Regolamento n. 733/2013 del 22 luglio 2013 e al vademecum sugli aiuti di Stato.

Aiuti di Stato in materia di energia e tutela ambientale

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Le linee guida (Regolamento n. 651/2014 della CE, del 17 giugno 2014 e dalla Comunicazione della CE sulla disciplina in materia di aiuti di Stato a favore dell’ambiente e dell’energia 2014-20) in materia di aiuti ai settori dell’ambiente e dell’energia, entrate in vigore dal 1 luglio 2014, stabiliscono nuove regole per gli aiuti alle fonti di energia rinnovabili e delineano, per la prima volta, le condizioni per il sostegno agli investimenti infrastrutturali e ai progetti che assicurano adeguate capacità di generazione.

Le novità introdotte sono tese a minimizzare le distorsioni del mercato e ad aiutare gli Stati membri a raggiungere obiettivi comuni come la sicurezza degli approvvigionamenti e il progresso nella lotta contro il cambiamento climatico. Per la prima volta, la Commissione europea ha deciso di adottare orientamenti che supportano il settore energetico nel suo complesso e non riguardano unicamente le fonti rinnovabili e l’efficienza energetica.

Definizioni chiave delle linee guida sugli Aiuti di Stato nei settori energia e ambiente

Riportiamo alcune definizioni chiave contenute nelle menzionate linee guida:

“Tutela ambientale o tutela dell’ambiente: qualsiasi azione volta a porre rimedio, o a prevenire un danno, o a promuovere un uso più razionale delle risorse naturali, ivi inclusi le misure di risparmio energetico e l’impiego di fonti di energia rinnovabili.

Efficienza energetica: la quantità di energia risparmiata determinata mediante una misurazione e/o una stima del consumo prima e dopo l’attuazione di una misura volta al miglioramento dell’efficienza energetica, assicurando nel contempo la normalizzazione delle condizioni che influiscono sul consumo energetico.

“Internalizzazione dei costi”: principio in base al quale le imprese che inquinano devono includere nei loro costi di produzione l’insieme dei costi legati alla tutela dell’ambiente.

“Sito contaminato”: luogo ove sia confermata la presenza, imputabile ad attività umane, di sostanze pericolose in quantità tale da rappresentare un rischio significativo per la salute umana o per l’ambiente, tenuto conto dell’uso attuale dei terreni o del loro uso futuro approvato.

Gli Aiuti di Stato più rilevanti per energia e ambiente

In linea generale, gli aiuti a favore dell’ambiente e dell’energia sono considerati compatibili con il mercato interno solo se comportano un effetto d’incentivazione del beneficiario a cambiare il comportamento: da uno insostenibile ad uno più rispettoso dell’ambiente. Precisiamo inoltre che tali aiuti non devono sovvenzionare i costi di un’attività d’impresa che comunque sosterrebbe e nemmeno devono compensare il normale rischio d’impresa di un’attività economica.

Vediamo quali sono gli aiuti più interessanti e la loro intensità:

  1. Aiuti di Stato intesi a realizzare un livello di tutela dell’ambiente superiore a quello assicurato dalle norme dell’ UE, o ad innalzarlo in assenza di norme specifiche (ad esempio gli incentivi alle diagnosi energetiche nelle PMI, poiché non sono obbligatorie come per le grandi imprese);
  2. Aiuti per l’adeguamento anticipato a future norme dell’UE (ad esempio le misure per migliorare la qualità dell’aria e dell’acqua);
  3. Aiuti per studi ambientali (la valutazione dell’inquinamento);
  4. Aiuti per il risanamento di siti contaminati;
  5. Aiuti a favore dell’energia da fonti rinnovabili (FER);
  6. Aiuti a favore di misure di efficienza energetica, compresi cogenerazione, teleriscaldamento e tele raffreddamento;
  7. Aiuti per l’uso efficiente delle risorse e, in particolare, per la gestione dei rifiuti (ad esempio: riduzione dei rifiuti prodotti da altre imprese in linea con la direttiva 2008/98/CE sulla gerarchia dei rifiuti);
  8. Aiuti per la cattura, il trasporto e lo stoccaggio di CO2, inclusi singoli elementi della catena del sistema di cattura e stoccaggio di CO2 (direttiva 2009/31/CE);
  9. Aiuti sotto forma di sgravi o esenzioni da tasse ambientali (politica fiscale verde);
  10. Aiuti sotto forma di riduzione dell’onere di finanziamento a sostegno della produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili;
  11. Aiuti per le infrastrutture energetiche (entro il 2020 la CE ha stimato sarà necessario lo stanziamento di 200 miliardi di euro a livello europeo).

Sottolineiamo che l’effetto d’incentivazione, mediante l’aiuto economico, deve essere tale da modificare il comportamento delle imprese interessate spingendole ad intraprendere un’attività supplementare che non svolgerebbero senza l’aiuto di Stato, o svolgerebbero soltanto in modo limitato, o diverso. In altri termini, la politica della UE eliminerà gradualmente i sussidi dannosi all’ambiente (ad esempio: agevolazioni sul consumo di combustibili fossili) anche se la gestione del diesel gate emersa nel 2015 non pare essere una buona partenza per contrastare l’inquinamento dovuto ai gas climalteranti. Nella seguente tabella riassumiamo le tipologie di aiuti dettagliati in base all’intensità e alla taglia del beneficiario.

 

 

Tipologia di aiuti

Intensità, importo o

caratteristica degli aiuti

alle imprese

Piccole Medie Grandi
Aiuti agli investimenti che consentono alle imprese di andare oltre le norme dell’UE in materia di tutela ambientale, di innalzarne il livello in assenza di tali norme 60% 50% 40%

Aiuti agli investimenti per l’adeguamento anticipato a future norme dell’UE

– più di 3 anni

– da 1 a 3 anni

20%

15%

15%

10%

10%

5%

Aiuti agli investimenti a favore di misure di efficienza energetica 50% 40% 30%

Aiuti agli investimenti a favore di progetti per l’efficienza energetica degli immobili (possono essere concessi sotto forma di una dotazione, di equity, di una garanzia o di un prestito a favore di un fondo per l’efficienza energetica, nonché di un altro intermediario finanziario, che li trasferiscono integralmente ai proprietari degli immobili o ai locatari). Gli aiuti possono essere concessi per le seguenti misure (con un comprovato risparmio energetico o con un utilizzo di fonti energetiche rinnovabili):

a) Isolamento termico di tetti, soffitti dell’ultimo piano e terrazze non calpestabili di edifici esistenti;

b) Isolamento termico di muri esterni, soffitti della cantina, portici e terrazze calpestabili di edifici esistenti;

c) Sostituzione di finestre e porte-finestre di edifici soggetti a tutela degli insiemi per i quali vige la misura protettiva del divieto di demolizione;

d) Installazione di impianti solari per il riscaldamento dell’acqua e/o della piscina;

e) Installazione di impianti solari per il riscaldamento e/o il raffreddamento;

f) Installazione di impianti di riscaldamento a biomassa alimentati automaticamente;

g) Installazione di caldaie a gassificazione);

h) Installazione di pompe di calore geotermiche;

i) Termorecupero da impianti di raffreddamento per prodotti;

j) Installazione di impianti fotovoltaici ed eolici per la produzione di energia elettrica;

k) Studi di fattibilità tecnica ed economica.

Gli aiuti concessi dal fondo per l’efficienza energetica o da un altro intermediario finanziario a favore di progetti ammissibili per l’efficienza energetica possono assumere la forma di prestiti o di garanzie.
Il valore nominale del prestito o l’importo garantito non superano 10 milioni di EUR per progetto a livello dei beneficiari finali.
La garanzia non supera l’80 % del relativo prestito
Aiuti agli investimenti a favore della cogenerazione ad alto rendimento 65% 55% 45%*
Aiuti agli investimenti volti a promuovere l’energia prodotta da fonti rinnovabili (intensità variabile a seconda del metodo di calcolo)

60% o

55% e

100%

con gara

50% o

45% e

100%

con gara

30 o

45% e

100%

con gara

Aiuti al funzionamento volti a promuovere la produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili Aiuti concessi sotto forma di premio che si aggiunge al prezzo di mercato al quale i produttori vendono la propria energia elettrica direttamente sul mercato. Condizioni specifiche sono previste per impianti di capacità ridotta
Aiuti al funzionamento volti a promuovere la produzione di energia da fonti rinnovabili in impianti su scala ridotta

L’importo dell’aiuto per unità di

energia non supera la differenza tra i costi totali livellati della produzione di energia dalla fonte rinnovabile in questione e il prezzo di mercato della forma di energia interessata

Aiuti sotto forma di sgravi da imposte ambientali in conformità della direttiva 2003/96/CE I beneficiari degli sgravi fiscali versano almeno il rispettivo livello minimo di imposizione previsto dalla direttiva 2003/96/CE.
Aiuti agli investimenti per il risanamento di siti contaminati 100% 100% 100%
Aiuti agli investimenti per teleriscaldamento e teleraffreddamento efficienti sotto il profilo energetico 65% 55% 45%
Aiuti agli investimenti per il riciclaggio e il riutilizzo dei rifiuti 55% 45% 35%

Aiuti agli investimenti per le infrastrutture energetiche

(solamente in zone assistite)

L’importo dell’aiuto non supera la differenza tra i costi ammissibili e il risultato operativo dell’investimento.
Aiuti per gli studi ambientali 70% 60% 50%

Chi può beneficiare degli Aiuti di Stato

Premesso che i criteri di assegnazione degli aiuti economici sono uniformi all’interno della UE, l’approccio della CE, nell’esaminare una misura di aiuto, mira ad individuare nella domanda di finanziamento, i seguenti aspetti fondamentali:

  • gli obiettivi perseguibili con gli aiuti (ad esempio ricerca e sviluppo, investimenti produttivi, formazione, occupazione, ecc.),
  • l’adeguatezza degli strumenti applicabili,
  • le spese ammissibili e le diverse condizioni di compatibilità a cui attenersi.

Possono richiedere gli aiuti di Stato le imprese (a prescindere dalla propria forma giuridica) definite come PMI (fino ai 250 occupati, il cui fatturato annuo non supera i 50 milioni di euro, o il cui totale di bilancio annuo non supera i 43 milioni di euro), o gli enti che svolgono un’attività d’impresa (ad esempio: enti pubblici, consorzi, o associazioni anche no profit). Precisiamo che la CE non considera le fondazioni bancarie come imprese, per il mero controllo di imprese strumentali. Tuttavia, la Corte di Giustizia ha precisato che devono essere considerate “imprese” le fondazioni bancarie qualora, agendo direttamente in ambiti di interesse pubblico e di utilità sociale, siano in grado di offrire beni, o servizi, sul mercato in concorrenza con altri operatori (ad es. in settori come la ricerca scientifica, l’educazione, l’arte o la sanità).

Il Vademecum sugli Aiuti di Stato

Dai siti web delle Camere di commercio (CC.AA.), di Confindustria o delle regioni, è possibile scaricare gratuitamente un vademecum sugli aiuti di Stato, aggiornato all’ultima approvazione della Carta nazionale degli aiuti approvata dalla CE nel settembre del 2014. Il vademecum è particolarmente utile ai consulenti e agli enti erogatori in genere, quindi non solo ai funzionari delle camere di commercio, ma anche delle pubbliche amministrazioni (regioni, comuni, ecc.).

Si tratta dunque di una guida pratica dove si trovano, oltre ai testi normativi comunitari più rilevanti, anche i modelli predisposti per le comunicazioni alla CE, e per le dichiarazioni delle imprese da presentare direttamente alle CC.AA., o indirettamente (attraverso i Confidi o alle associazioni di categoria). Il Vademecum chiarisce, con interessanti esempi, i più frequenti dubbi sulla legalità dei contributi concessi, ad esempio come regola generale sono vietati tutti quelli utili al funzionamento amministrativo, privi di carattere innovativo poiché limitati alla gestione corrente di una società. Raccomandiamo, dunque, prima di confezionare una domanda di aiuto, di analizzare tali esempi per evitare spiacevoli sorprese e perdita di risorse.

Come accedere ai finanziamenti

Gli aiuti di Stato sono attuati attraverso bandi, o avvisi pubblici (ai sensi del Regolamento n. 1407/2013 della CE del 18/12/2013). Le intensità degli aiuti economici sono espresse in percentuali del valore di ESL e variano regionalmente, in base alla Strategia Europa 2020, da un 10% (fino al 20% per le PMI)  a un 25% (le c.d. zone “a”: Italia meridionale). La domanda di aiuto, da inviare all’ufficio regionale competente, deve contenere almeno le seguenti informazioni:

  • nome e dimensioni dell’impresa;
  • descrizione del progetto, comprese le date di inizio e fine;
  • ubicazione del progetto;
  • elenco dei costi del progetto;
  • tipologia dell’aiuto (sovvenzione, prestito, garanzia, anticipo rimborsabile, apporto di capitale o altro) e importo del finanziamento pubblico necessario per il progetto.

Per avere un’idea degli interventi statali tipici rimandiamo all’allegato 2 della C200/46 del 2014 dove sono elencati alcuni esempi in funzione di costi ammissibili, mirati ad aumentare il livello di tutela ambientale, o a  rafforzare il mercato interno dell’energia. Nella tabella seguente riportiamo i punti di contatto regionali in materia di aiuti di Stato http://www.politicheeuropee.it/attivita/19110/aiuti-di-stato-punti-contatto:

Abruzzo Giovanna Andreola giovanna.andreola@regione.abruzzo.it
Basilicata Presidente della Regione dg_presidenza.giunta@regione.basilicata.it
Calabria Paola Rizzo p.rizzo@regcal.it
Campania Raffaele Chianese raffaele.chianese@regione.campania.it
Emilia Romagna Enrico Cocchi dpa@regione.emilia-romagna.it
Friuli Venezia Giulia Olga Simeon olga.simeon@regione.fvg.it
Lazio Tiziana Petucci tpetucci@regione.lazio.it
Liguria Gabriella Drago gabriella.drago@regione.liguria.it
Lombardia Emanuele Prosperi emanuele_prosperi@regione.lombardia.it
Marche Cristiana Sposito cristiana.sposito@regione.marche.it
Molise Gaspare Tocci g.tocci@regione.molise.it
Piemonte Davide Donati davide.donati@regione.piemonte.it
Puglia Pasquale Orlando p.orlando@regione.puglia.it
Sardegna Gabriella Massidda pres.dirgen@regione.sardegna.it
Sicilia Maria Mattarella maria.mattarella@ull.regione.sicilia.it
Toscana Patrizia Magazzini patrizia.magazzini@regione.toscana.it
Trentino Alto Adige Presidente regione presidente@regione.taa.it
Umbria Luigi Rossetti lrossetti@regione.umbria.it
Valle d’Aosta Fausto Ballerini f.ballerini@regione.vda.it
Veneto Lisanna Simon lisanna.simon@regione.veneto.it

Concludiamo con una riflessione stimolata da uno studio di alcuni ricercatori, diretti dal prof. Francesco Giavazzi pubblicato nel 2011 sull’efficacia degli aiuti di Stato.

Le imprese italiane nel 2011 hanno beneficiato di circa 36 miliardi di euro grazie agli aiuti di Stato. Oggi possiamo tranquillamente affermare che si è trattato di una cifra considerevole se relazionata con il debito pubblico di quell’anno pari 1,9 miliardi di euro (il 120,7% del PIL), poiché rivelatasi ininfluente sulla crescita economica. In pratica, alcuni anni più tardi, precisamente nel luglio del 2014, avremmo raggiunto il massimo debito pubblico storico: 2,1 miliardi di euro.

Secondo il Giavazzi, potremmo risparmiare circa 10 miliardi di euro in aiuti se tutti gli enti erogatori li gestissero in modo più responsabile, evitando infiltrazioni mafiose e sovvenzioni alle imprese prive di seri piani di ristrutturazione. Inoltre -ravvisa lo studioso- in tale modo conseguiremmo anche una crescita del PIL più che proporzionale al reddito procapite, di circa 1,5% nell’arco di due anni.

E infine -sostiene il professore- una seria e trasparente politica di controllo degli aiuti di Stato determinerebbe un auspicabile alleggerimento della pressione fiscale, ora talmente vessatoria da impedire la competitività dei nostri prodotti e servizi nei mercati internazionali.

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Idee creative per decorare le scale con pattern, colori e tappeti

Sei alla ricerca di qualche idea creativa per rallegrare le tue scale e trasformarle in grazioso elemento d´arredo? Ecco una selezione di scale decorate con pattern floreali, gradienti di colore e tappeti, facili da realizzare e per ogni gusto.

Come per tutti i progetti DIY (Do it yourself) basta dare un’occhiata sul web, mixare e scambiare idee con amici per avere nuovi spunti e trovare la soluzione adatta per decorare la propria abitazione. Personalizzare l’arredamento e vecchi oggetti è più divertente e facile di quanto si pensi!

SCALE ORIGINALI: LA SCALA A CHIOCCIOLA VEGETALE

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Le scale interne possono diventare un elemento caratterizzante delle abitazioni a più di un livello, specie quelle noiose con rampa rettilinea. Meritano la stessa attenzione di altri elementi della casa anche perché qualsiasi parte, ringhiere, alzate e pedate, può essere rivestita e decorata con pattern, colori e tappeti con alcune di queste idee creative.

Pitture colorate per le alzate della scala 

Stessa logica del restyling delle vecchie cassettiere per queste idee: gradienti di colore o varie tinte applicate alle alzate delle scale daranno un tocco nuovo all’intera stanza. Per ottenere un effetto sobrio sono necessari pochi colori, mentre per uno stile più allegro e festoso, ci si può sbizzarrire con un arcobaleno o combinare più tinte. I colori pastello definiscono interni armoniosi e chic, mentre due tinte per ogni gradino (per es. bianco/nero), che possono proseguire anche sulle pareti, produrranno un effetto ipnotico e grintoso.

Semplice ed efficace la tecnica di scegliere colori consecutivi per le alzate, utilizzando per esempio cinque/sei tonalità. I più creativi, che amano spesso cambiare gli interni, possono invece decorare le scale ricoprendole con una pittura effetto lavagna per disegni e testi temporanei.

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Carta da parati e stencil per decorare le scale

Altra idea creativa per le scale è di decorare le alzate con pattern originali, applicando nastri adesivi, carte da parati e stencil. Bisogna evitare le bolle d’aria, preparando accuratamente la superficie e applicando la decorazione con pazienza. Esistono in commercio moltissime carte, con finitura metallo martellato per uno stile industrial, con pattern arabi, floreali o geometrici, bellissimi per scale in pietra e in legno. Dove regna il design minimalista, con nastro, vernice bianca e nera si possono trasformare le scale drammaticamente con frecce o linee astratte.

Molti creativi hanno giocato con strisce verniciate lungo alzate e pedate, per dare l’illusione ottica di tappeti o di strisce di tessuto applicate all’intera rampa. Le righe verticali allungano e i gradini sembreranno più alti, mentre il contrasto con colori o materiali scuri (come il legno) darà la sensazione di maggiore profondità.

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Idee creative per tappeti sulle scale

Specie per le scale condominiali o nelle vecchie case è comune usare tappeti e runner, fissati ad ogni gradino con occhielli o tubi per decorare con colori o pattern. Si possono sostituire i tappeti con tele di juta e sisal per uno stile provenzale, mentre passatoie di velluto sono più adatte ad indoor classici. È molto trendy usare runner di fibre naturali oppure unire diversi tappeti a fantasia. Geniali tutte le scale in cui si sfruttano i primi gradini come cassetti apribili o con librerie sotto il rampante. Del resto ogni mobile salva spazio è una benedizione per le case XXS o per chi non riesce a buttare proprio nulla! Queste soluzioni, realizzate da falegnami o da bravissimi artigiani del fai da te, riescono a coniugare la funzione principale con quella di archiviare libri e e oggetti. 

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In Sicilia l’energia pulita è prodotta dagli scarti delle arance

Tutta l’Italia e tutto il mondo conoscono gli agrumi di Sicilia per le loro qualità organolettiche, per il loro gusto unico e per l’esclusività del prodotto. Non tutti, però, sanno che il loro utilizzo può essere esteso anche all’esterno dell’ambito culinario e, più in particolare, può coinvolgere il mondo dell’energia rinnovabile. I residui organici come le bucce delle arance, difficilmente digeribili, rientrano nel ciclo produttivo da una porta che si apre ad un nuovo settore, quello della produzione di biomassa a partire proprio da questi scarti.

In copertina: foto da © 2016 AranciaDOC

RICICLARE SCARTI DELLA FRUTTA: CARTA E PELLE DALLE MELE

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Il progetto, che prevede l’analisi della soluzione in questione, è stato presentato dall’associazione no profit Distretto Agrumi di Sicilia che ha lanciato la sfida di utilizzare il pastazzo, scarto di lavorazione degli agrumi, per ricavarne biomasse e ottenere una fonte energetica pulita, sostenibile e rinnovabile. L’idea è piaciuta subito a The Coca-Cola Foundation, che ha deciso di finanziare materialmente l’intenzione siciliana e di contribuire a trovare una soluzione ottimale per un’area dove i residui delle arance sono diffusi quasi quanto i cannoli.

La conferma ufficiale dell’avvio dell’iniziativa è stata diffusa da Federica Argentati, presidentessa del Distretto che, nel 2014, aveva lanciato l’idea coinvolgendo la Cooperativa Empedocle, formata da diverse società impegnate nella produzione di energia alternativa e dall’università di Catania. L’obiettivo era quello di sviluppare un progetto-pilota capace di dimostrare la fattibilità e la convenienza legate al riuso di prodotti altrimenti destinati allo smaltimento, senza essere sfruttati appieno fino al completo esaurimento della risorsa che rappresentano.

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La produzione di energia a partire dalle arance

A partire da Catania, l’iniziativa si è espansa a macchia d’olio in tutta la Sicilia, coinvolgendo le province dell’isola che hanno accolto con entusiasmo e spirito di collaborazione la proposta avanzata. Caltanissetta ne è l’esempio e, più precisamente, il comune di Mussomeli, dove un’azienda agricola locale ha installato un impianto a biogas alimentato proprio dal pastazzo. Lo stesso prodotto, da tempo utilizzato per fertilizzare il terreno e, quindi, per produrre frutti succosi e saporiti, viene sfruttato, adesso, per la produzione di energia elettrica pulita. 

Attualmente 40 tonnellate di bucce di agrumi riescono a produrre una quantità di energia elettrica e termica pari a 23.976 kWh al giorno. È stato stimato che il sistema è in grado di soddisfare il fabbisogno energetico di ben 333 abitazioni, senza adibire interi terreni alla coltivazione di biomasse, sottraendoli ad altri prodotti che potrebbero portare un ritorno economico maggiore. Usare gli scarti vuol dire agire intelligentemente, limitare i costi e incrementare la coltivazione delle famose e gustose arance, nel caso della Sicilia, e di altri prodotti ortofrutticoli, nel caso di altre zone italiane. 

Il pastazzo, infatti, oltre a costituire una soluzione ideale dal punto di vista ambientale, producendo energia pulita, interviene anche sull’aspetto economico, abbattendo i costi legati allo smaltimento del rifiuto, che in Sicilia si aggirano intorno ai 10 milioni di euro annui. Nell’arco del dodici mesi, nell’isola, si producono circa 340 tonnellate di pastazzo, ovvero quantità tali da provvedere sia alla produzione di energia che al suo utilizzo in agricoltura come fertilizzante. Il progetto, quindi, porterebbe ad una riduzione dei costi contemporaneamente all’aumento della coltivazione dei prodotti da poter vendere sul mercato.

Affinchè tutta la Sicilia possa ricorrere al nuovo metodo di produzione dell’energia dalle arance sarebbe necessario installare altri impianti di trasformazione (circa 20 su tutta l’isola) chiamati digestori. In questo modo si potrebbe risolvere il problema che affligge la regione di smaltire gli scarti della lavorazione degli agrumi e, al tempo stesso, si produrrebbe energia pulita. 

caption: Il pastazzo lavorato nell'impianto installato a Mussomeli, in provincia di Caltanisetta. Fonte: chimici.info

Energia pulita non solo dagli agrumi

L’esperimento ha mosso i primi passi a partire dal pastazzo, ma può coinvolgere anche altri ambiti della filiera agroalimentare, ricca com’è di prodotti che, una volta ricavata la parte “buona”, vengono scartati senza essere riutilizzati e sfruttati appieno. È il caso, ad esempio, della sansa che si ottiene dall’olio, delle vinacce, delle pale dei fichi d’india, e così via. Il percorso dovrebbe essere analogo e, in questo modo, ogni regione avrebbe il proprio prodotto da sfruttare, da spremere fino all’osso, contribuendo a migliorare la qualità della vita in Italia e su tutto il pianeta. Ogni regione potrebbe approfittare della propria peculiarità, incrementandone la produzione e non gettando via nemmeno una briciola di quello che, ormai, non serve più nell’ambito alimentare o agricolo. Questa forma di energia pulita potrebbe essere una più che valida da perseguire, sin da subito, allontanandosi, seppur lentamente, dal carbone e da altri combustibili fossili. 

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Finanziamenti pubblici per le libere professioni: accedere ai fondi europei

Nella nuova programmazione 2014-2020 nel quadro delle politiche per la crescita della UE, per la prima volta la Commissione europea (CE) adotta un piano per i liberi professionisti equiparandoli agli imprenditori, già destinatari di finanziamenti europei.

Vediamo quali sono gli interventi dedicati alla categoria, quali i fondi pubblici e come accedervi.

FONDI UE PER IL RISPARMIO ENERGETICO E L’EFFICIENZA ENERGETICA

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I liberi professionisti come PMI

Finalmente, dopo anni di esclusione dai finanziamenti UE, i liberi professionisti sono riconosciuti, a livello europeo, come PMI, nonché come soggetti fondamentali per il conseguimento degli obiettivi comunitari delineati nella Strategia Europa 2020 con orizzonte appunto fissato al 2020.

Il cambio di rotta di Bruxelles si deve ad un’indagine a livello comunitario condotta nel 2010 che ha evidenziato l’esistenza di 3,7 milioni di imprese di liberi professionisti che forniscono un’occupazione a 11 milioni di persone. Comprensibilmente, si tratta di un business non marginale, superiore ai 560 miliardi di euro. Il ruolo dei liberi professionisti per il conseguimento degli obiettivi europei con orizzonte 2020, sarà strategico, grazie alle loro conoscenze tecniche potranno contribuire nei seguenti settori:

  • Efficienza delle risorse: costruire a basse emissioni di carbonio riciclando e valorizzando i rifiuti derivati dai processi di costruzione e demolizione.
  • Investimenti di efficienza energetica nella ristrutturazione degli edifici e per la ricerca e l’innovazione intelligenti, sostenibili e inclusive.

I finanziamenti a cui possono accedere i liberi professionisti

Nel 2015 la CE ha lanciato un Piano d’azione per migliorare l’attività degli 11 milioni di persone che nell’UE svolgono libere professioni in una forma strutturata equiparabile a quella di una micro o piccola impresa, tra cui anche quelle tecniche (architetti, ingegneri e non solo).

In sintesi, i liberi professionisti possono essere destinatari di qualunque tipologia di fondo comunitario.

Vediamo i punti su cui si articola il Piano:

  • accesso al credito: i liberi professionisti possono fruire dei finanziamenti europei indiretti (attraverso le regioni) o diretti (attraverso la UE).
  • formazione: sarà costituita una piattaforma per coordinare le attività di Università, liberi professionisti ed imprese, cui andrà ad aggiungersi la formazione professionale online (e-learning) per lo sviluppo delle competenze nell’ambito della gestione d’impresa;
  • accesso ai mercati ed internazionalizzazione con la collaborazione dei liberi professionisti e della rete Enterprise Europe Network nella quale sono coinvolti 54 Paesi nel Vecchio Continente e in tutto il Mondo, ai quali corrispondono oltre 600 organizzazioni;
  • semplificazione: sarà costituito un tavolo di lavoro progettato per la diffusione delle pratiche ritenute più valide nel campo della semplificazione con il contributo attivo delle associazioni di liberi professionisti;
  • governance: verranno definiti degli incontri annuali tra la CE e il mondo della libera professione, nonché conferenze relative al tema di politica dell’impresa.

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La legge di stabilità per l’accesso dei liberi professionisti ai bandi per i fondi europei

La L. 208/2015, detta anche “legge di stabilità” ha riconosciuto quanto affermavano alcuni anni fa la Raccomandazione 2003/361/CE e il Regolamento UE 1303/2013, che equiparavano i professionisti alle PMI, poiché la nozione di impresa, in Europa include qualsiasi entità che esercita un’attività economica, a prescindere dallo status giuridico di detta entità e dalle sue modalità di finanziamento.

Pertanto, in quella definizione rientrano a pieno titolo anche i liberi professionisti e così, nel 2014, le Linee d’azione per le libere professioni, del Piano d’azione imprenditorialità 2020, li individuano come destinatari dei fondi europei. Nonostante ciò, la gran parte dei bandi regionali italiani hanno continuato ad escludere le categorie professionali inserendo in molti casi l’iscrizione alla Camera di Commercio come requisito imprescindibile.

Dal primo gennaio 2016, l’approvazione della legge di Stabilità dovrebbe, in teoria, eliminare tutte le barriere d’accesso -ai professionisti- ai prossimi bandi, sia regionali che nazionali, dei fondi strutturali europei. Inoltre, al di fuori di iniziative ad hoc, attraverso la creazione di un consorzio di fidi, i professionisti dovranno essere beneficiati anche dalle misure di garanzia per prestiti. Complessivamente, tali misure dovrebbero consentire alla categoria di competere nel mercato globalizzato e della libera circolazione delle idee, sancito definitivamente con l’attuazione della tessera professionale europea.

Un’ulteriore e doverosa precisazione: con il Ddl Lavoro (collegato alla L. 208/2015) l’equiparazione tra imprenditori e liberi professionisti sarà a tempo indeterminato, quindi non più limitata fino al 2020. Infine, l’articolo 7 del Ddl Lavoro stabilisce che l’accesso ai fondi UE è aperto ad ogni forma di lavoro autonomo, diversamente dalla norma contenuta nella Legge di Stabilità 2016 che citava solo i “liberi professionisti” senza fornire ulteriori approfondimenti in merito.

Come accedere ai finanziamenti europei

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Il Piano d’azione per le libere professioni dunque consente anche ai liberi professionisti di fruire degli 80 miliardi di euro del programma Horizon 2020, relativo a ricerca e innovazione, e dei 2,4 miliardi dei fondi del programma COSME 2014–2020 entrambi lanciati nel 2014.
Allo stesso modo anche i piani operativi regionali (POR) e nazionali (PON) dei fondi sociali europei (FSE) e fondi europei di sviluppo regionale (FESR), rientranti nella programmazione dei fondi strutturali europei 2014-2020, si intendono estesi anche ai liberi professionisti.

L’apertura dei bandi comunitari ai liberi professionisti dovrebbe così consentire all’Italia di sfruttare meglio i fondi strutturali. Secondo l’ultimo aggiornamento sulla spesa certificata nell’attuazione dei programmi finanziati dai fondi comunitari, il nostro Paese ha raggiunto il 47,5% della dotazione totale stanziata nel ciclo di programmazione 2007-2013, in altri termini, ciò significa che è riuscito a spendere neppure la metà dei 100 miliardi resi disponibili dall’UE.

I liberi professionisti, privi di nozioni di euro progettazione e di project management, troveranno particolarmente utile lo sportello del Comitato Unitario delle Professioni. Entro aprile del 2016 ne verrà aperto, ci auguriamo, uno in ogni provincia, o almeno in modo sufficientemente capillare per diffondere informazioni riguardo all’accesso ai bandi europei e per istruire le procedure di domanda.  

Per concludere condividiamo il pensiero del presidente di Confprofessioni, Gaetano Stella, in merito all’apertura dei fondi UE ai liberi professionisti: “Non si tratta di un traguardo, ma di un punto di partenza per assicurare a tutti i liberi professionisti, senza alcuna distinzione, le risorse necessarie per competere ad armi pari sul mercato dei servizi professionali. Adesso, dobbiamo rimboccarci le maniche perché siamo all’inizio di un percorso che, in linea con gli orientamenti comunitari, supera le distinzioni tra PMI e studi professionali e ridisegna dalle fondamenta il valore dei liberi professionisti in un contesto economico ancora fragile”.

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Gli eroi del clima contro il riscaldamento globale

Molteplici sono i volti, ed ognuno si porta dietro una meravigliosa storia: sono gli Eroi del Clima, persone che quotidianamente rispondono al surriscaldamento ed ai cambiamenti climatici globali, cercando di fare del proprio meglio per limitare i danni e ridurre l’impronta ecologica dell’impatto del vissuto umano sul pianeta Terra: sono state raccolte nel progetto Climate Heroes, su un sito dove è possibile non solo conoscere i fotografi del progetto, ma anche nominare e sostenere uno degli eroi ivi presenti.

In copertina: Isatou Ceesay, cofondatrice della Women Initiative the Gambia.

CAMBIAMENTI CLIMATICI: 17 PROGETTI PER CAMBIARE IL MONDO

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Tra gli Eroi del Clima che combattono contro il riscaldamento globale c’è Isatou Ceesay, a Banjul, in Gambia, che è cofondatrice della Women Initiative the Gambia e che per 17 anni si è impegnata per insegnare alle donne del suo territorio come poter trasformare i rifiuti plastici in fonte di reddito, proprio per eliminare uno dei maggiori responsabili delle emissioni di anidride carbonica in Africa; c’è il Venerabile Bun Saluth, che in Cambogia è riuscito, nel 2002 a far in modo che i monaci della pagoda di Samraog avessero riconosciuto legalmente il diritto alla salvaguardia di ben oltre 18 mila ettari di foresta sempreverde, nello stesso territorio.

caption: I monaci della pagoda di Samraog in Cambogia

Altro eroe rappresentato nel progetto è Brian Kjaer e gli abitanti dell’isola di Samsø, che in Danimarca, in meno di 20 anni, hanno potuto raggiungere una reale indipendenza dai sistemi non rinnovabili, riuscendo a realizzare sistemi in grado di affidarsi al 100% su energie rinnovabili, risparmiando così l’emissione di oltre 60 tonnellate di anidride carbonica.

A Montréal in Canada, Benoit Lavigueur ha impiegato gli ultimi sei anni dei suoi 29 alla lotta contro i cambiamenti climatici, costruendo la casa dei suoi sogni: un’abitazione costituita da materiali riciclabili e locali, che gli hanno permesso un risparmio energetico del 90 per cento e una certificazione LEED platinum, e che è la casa più ecofriendly di tutto il Quebeq.

 caption: un impianto eolico dell'isola di Samsø

caption: Benoit Lavigueur e la sua casa ecofriendly

Queste e molte altre storie sono presenti nel progetto sugli eroi del clima, con documentazione fotografica realizzata dall’autore del progetto, il fotografo Max Riché, che nel 2010 ha fondato l’ong Climate Heroes e per i successivi cinque anni, assieme ai sui amici e colleghi come Nicolas Beaumont e Luke Duggleby, è andato in ogni angolo del globo a caccia degli eroi del clima, personalità, cittadini o associazioni attive quotidianamente per combattere il cambiamento climatico.

Ciascuno può fare qualcosa nel suo piccolo per opporsi a comportamenti sbagliati, relativamente alla sostenibilità ambientale, e questi comportamenti positivi potrebbero propagarsi per salvaguardare il nostro meraviglioso pianeta.

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Gli eroi del clima contro il riscaldamento globale

Molteplici sono i volti, ed ognuno si porta dietro una meravigliosa storia: sono gli Eroi del Clima, persone che quotidianamente rispondono al surriscaldamento ed ai cambiamenti climatici globali, cercando di fare del proprio meglio per limitare i danni e ridurre l’impronta ecologica dell’impatto del vissuto umano sul pianeta Terra: sono state raccolte nel progetto Climate Heroes, su un sito dove è possibile non solo conoscere i fotografi del progetto, ma anche nominare e sostenere uno degli eroi ivi presenti.

In copertina: Isatou Ceesay, cofondatrice della Women Initiative the Gambia.

CAMBIAMENTI CLIMATICI: 17 PROGETTI PER CAMBIARE IL MONDO

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Tra gli Eroi del Clima che combattono contro il riscaldamento globale c’è Isatou Ceesay, a Banjul, in Gambia, che è cofondatrice della Women Initiative the Gambia e che per 17 anni si è impegnata per insegnare alle donne del suo territorio come poter trasformare i rifiuti plastici in fonte di reddito, proprio per eliminare uno dei maggiori responsabili delle emissioni di anidride carbonica in Africa; c’è il Venerabile Bun Saluth, che in Cambogia è riuscito, nel 2002 a far in modo che i monaci della pagoda di Samraog avessero riconosciuto legalmente il diritto alla salvaguardia di ben oltre 18 mila ettari di foresta sempreverde, nello stesso territorio.

caption: I monaci della pagoda di Samraog in Cambogia

Altro eroe rappresentato nel progetto è Brian Kjaer e gli abitanti dell’isola di Samsø, che in Danimarca, in meno di 20 anni, hanno potuto raggiungere una reale indipendenza dai sistemi non rinnovabili, riuscendo a realizzare sistemi in grado di affidarsi al 100% su energie rinnovabili, risparmiando così l’emissione di oltre 60 tonnellate di anidride carbonica.

A Montréal in Canada, Benoit Lavigueur ha impiegato gli ultimi sei anni dei suoi 29 alla lotta contro i cambiamenti climatici, costruendo la casa dei suoi sogni: un’abitazione costituita da materiali riciclabili e locali, che gli hanno permesso un risparmio energetico del 90 per cento e una certificazione LEED platinum, e che è la casa più ecofriendly di tutto il Quebeq.

 caption: un impianto eolico dell'isola di Samsø

caption: Benoit Lavigueur e la sua casa ecofriendly

Queste e molte altre storie sono presenti nel progetto sugli eroi del clima, con documentazione fotografica realizzata dall’autore del progetto, il fotografo Max Riché, che nel 2010 ha fondato l’ong Climate Heroes e per i successivi cinque anni, assieme ai sui amici e colleghi come Nicolas Beaumont e Luke Duggleby, è andato in ogni angolo del globo a caccia degli eroi del clima, personalità, cittadini o associazioni attive quotidianamente per combattere il cambiamento climatico.

Ciascuno può fare qualcosa nel suo piccolo per opporsi a comportamenti sbagliati, relativamente alla sostenibilità ambientale, e questi comportamenti positivi potrebbero propagarsi per salvaguardare il nostro meraviglioso pianeta.

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Le 20 migliori città per andare in bicicletta secondo il Copenhagenize Index

Copenhagenize Design Company è uno studio danese che si occupa di urbanistica e spinge per una maggiore diffusione delle biciclette. Ogni biennio stila una classifica delle 20 città che si presentano più vivibili rispetto alle novità introdotte per gli amanti della due ruote. Lo studio considera, per la redazione di questa classifica, sia criteri relativi alla qualità degli investimenti futuri programmati che alle caratteristiche delle infrastrutture per la bicicletta, oltre all’impegno di gruppi locali di associazioni e terzo settore impegnati nella promozione di caratteristiche positive a tale scopo.

Copenhagenize Index: la classifica delle 20 città che hanno preferito la bici nel 2013

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Città su due ruote: criteri e scopo della classifica

Sono state considerate, per redigere la classifica delle 20 migliori città che hanno scelto la bicicletta, le principali realtà urbane che abbiano importanza strategica a livello locale, per lo più con un numero di abitanti superiore a 600 mila. 

Per il 2015 la città prima in classifica è Copenhagen, che per la prima volta ha superato Amsterdam; tra le prime città molte sono europee e sono poche le eccezioni: Buenos Aires, Minneapolis e Montreal. Non ci sono città italiane in classifica.

L’obiettivo del Copenhagenize Index è quello di riportare la bicicletta ad essere un mezzo di trasporto flessibile, pratico e sicuro: questo è un obiettivo che indiscutibilmente tutto il mondo intende raggiungere.

Le città fonti d’ispirazione per questo studio sono non solo le città che promuovono l’uso di mezzi di trasporto alternativi all’automobile, ma quelle che cercano di restringere al massimo l’impiego di veicoli a motore per promuovere invece la rete ciclabile attraverso la realizzazione di opportune infrastrutture che permettano di viaggiare, con questo mezzo, in sicurezza e tranquillità.

I criteri per stilare la classifica sono stati: vocazione, cultura della bicicletta e relative facilitazioni, infrastrutture, programma di bike sharing, studio di genere, scambi intermodali e loro incremento, percezione della sicurezza, politica di programmazione, accettazione sociale, pianificazione urbana, effetti sul traffico.

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La classifica delle città più ciclabili al mondo

  1. Al primo posto della lista del Copenhagenize Index c’è Copenhagen, grazie ai costanti investimenti che sono stati fatti per migliorare le infrastrutture; 
  2. Amsterdam, resta una città eccellente per le bici, ha smesso di innovare e cercare nuove soluzioni per migliorare la qualità dei servizi per i ciclisti;  
  3. Utrecht, al terzo posto della classifica delle migliori 20 città dal 2011, è un’ottima città per andare in bici;  
  4. Strasburgo, dove sono stati costruiti 536 chilometri di piste ciclabili negli ultimi decenni, è da anni considerata la miglior città francese per le biciclette;  
  5. Eindhoven, presente nella classifica già dal 2011, senza tuttavia aver apportato, secondo i curatori, grosse innovazioni nel settore; 

    caption: Copenhagen, foto di barnyz via Flickrcaption: Amsterdam, foto di Ryan Taylorcaption: Utrecht, foto di Tom Juttecaption: Strasburgo, foto di ilovebuttercaption: Eindhoven, foto di Dan 

  6. Malmö, in cui da anni si investe con costanza e sapienza per migliorare le infrastrutture e la cultura delle bici: nel 2013 è stato aperto un grandissimo parcheggio per le bici nei pressi della stazione;
  7. Nantes, presente dal 2013 nella classifica del Copenhagenize Index, vede rafforzato l’impianto dedicato al sistema bicicletta grazie a costanti investimenti, ampiezza di vedute e collaborazione tra la città e le organizzazioni locali che già operavano nel settore delle bici; 
  8. Bordeaux, che perde tre posti in classifica delle migliori 20 città, perché non si percepisce lo stesso entusiasmo di qualche anno fa; tuttavia gli investimenti per le bici in città rimangono notevoli; 
  9. Anversa, si rivela la migliore città del Belgio per le bici, ma perde alcune posizioni a causa della nuova giunta comunale che sta cercando di “attirare più auto nel centro della città”;
  10. Siviglia, la migliore città spagnola per le biciclette, qualche anno fa arrivò al quarto posto in classifica, cambiando radicalmente in poco tempo la cultura delle bici in città. Da allora le cose non sono tuttavia cambiate molto, da qui il calo in classifica; 

    caption: Malmö, foto di La citta vitacaption: Nantes, foto di Fiona Campbellcaption: Bordeaux, foto di Yann Garcaption: Anversa, foto di Yelp Inc.caption: Siviglia, foto di adrimcm 

  11. Barcellona. Anni fa quasi non si vedevano biciclette in città, ora invece sono tantissime, grazie ad investimenti considerevoli per le infrastrutture e politiche per rendere la città più sicura per le bici e conquista l’undicesimo posto della classifica; 
  12. Berlino, con tantissimi ciclisti in giro, anche se le infrastrutture potrebbero essere decisamente migliori;  
  13. Lubiana, con costanti investimenti a partire dagli anni Settanta, la città entra per la prima volta nella top 20 grazie al rinnovato impegno delle ultime amministrazioni; 
  14. Buenos Aires, ove in pochissimo tempo sono stati costruiti ben 140 Km di piste ciclabili, generalmente divise dalla strada, ed è stato creato un buon servizio di bike sharing;
  15. Dublino, considerata da anni un’ottima città per le bici;

    caption: Barcellona, foto di naricecaption: Berlino, foto di Olley Coffeycaption: Lubiana, foto di Lubiana Mobility Weekcaption: Buenos Aires, foto di plaudi olivares medinacaption: Dublino, foto di Giuseppe Milo 

  16. Vienna, presente nella classifica del 2011 ma non in quella del 2013, torna ora grazie ai costanti investimenti che hanno esteso la rete di piste ciclabili anche fuori dal centro città, dove il traffico è limitato; 
  17. Parigi, che tra le grandi città del mondo è quella più attiva per le bici, anche se spesso mancano le conoscenze per scegliere le migliori soluzioni urbanistiche; i costanti investimenti degli ultimi anni e il successo del sistema di bike sharing, le consentono di stare nella classifica;  
  18. Minneapolis, la città statunitense ad essere inclusa nella classifica del Copenhagenize Index: ha raccolto molti punti bonus per l’impegno dimostrato negli ultimi anni da autorità locali e associazioni per migliorare la qualità dei servizi per le bici in città: per esempio ci sono quasi 400 Km di percorsi per le bici e piste ciclabili, sebbene infrastrutture e investimenti non siano ancora all’altezza delle grandi città europee;  
  19. Amburgo, dove sono presenti molte bici e una rete di piste ciclabili piuttosto ampia: le ultime amministrazioni, tuttavia, hanno scelto di non migliorarle in nessun modo;  
  20. Montreal, con ottime infrastrutture, molti ciclisti e diversi gruppi che si occupano di migliorare la situazione per le bici: da anni è una delle migliori città del Nord America per andare in bicicletta.

    caption: Vienna, foto di Ian Southwellcaption: Parigi, foto di Jean-Louis Zimmermancaption: Minneapolis, foto di Ernesto de Quesadacaption: Amburgo,foto di Rene Scaption: Montreal, foto di Lima Pix 

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Le 20 migliori città per andare in bicicletta secondo il Copenhagenize Index

Copenhagenize Design Company è uno studio danese che si occupa di urbanistica e spinge per una maggiore diffusione delle biciclette. Ogni biennio stila una classifica delle 20 città che si presentano più vivibili rispetto alle novità introdotte per gli amanti della due ruote. Lo studio considera, per la redazione di questa classifica, sia criteri relativi alla qualità degli investimenti futuri programmati che alle caratteristiche delle infrastrutture per la bicicletta, oltre all’impegno di gruppi locali di associazioni e terzo settore impegnati nella promozione di caratteristiche positive a tale scopo.

Copenhagenize Index: la classifica delle 20 città che hanno preferito la bici nel 2013

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Città su due ruote: criteri e scopo della classifica

Sono state considerate, per redigere la classifica delle 20 migliori città che hanno scelto la bicicletta, le principali realtà urbane che abbiano importanza strategica a livello locale, per lo più con un numero di abitanti superiore a 600 mila. 

Per il 2015 la città prima in classifica è Copenhagen, che per la prima volta ha superato Amsterdam; tra le prime città molte sono europee e sono poche le eccezioni: Buenos Aires, Minneapolis e Montreal. Non ci sono città italiane in classifica.

L’obiettivo del Copenhagenize Index è quello di riportare la bicicletta ad essere un mezzo di trasporto flessibile, pratico e sicuro: questo è un obiettivo che indiscutibilmente tutto il mondo intende raggiungere.

Le città fonti d’ispirazione per questo studio sono non solo le città che promuovono l’uso di mezzi di trasporto alternativi all’automobile, ma quelle che cercano di restringere al massimo l’impiego di veicoli a motore per promuovere invece la rete ciclabile attraverso la realizzazione di opportune infrastrutture che permettano di viaggiare, con questo mezzo, in sicurezza e tranquillità.

I criteri per stilare la classifica sono stati: vocazione, cultura della bicicletta e relative facilitazioni, infrastrutture, programma di bike sharing, studio di genere, scambi intermodali e loro incremento, percezione della sicurezza, politica di programmazione, accettazione sociale, pianificazione urbana, effetti sul traffico.

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La classifica delle città più ciclabili al mondo

  1. Al primo posto della lista del Copenhagenize Index c’è Copenhagen, grazie ai costanti investimenti che sono stati fatti per migliorare le infrastrutture; 
  2. Amsterdam, resta una città eccellente per le bici, ha smesso di innovare e cercare nuove soluzioni per migliorare la qualità dei servizi per i ciclisti;  
  3. Utrecht, al terzo posto della classifica delle migliori 20 città dal 2011, è un’ottima città per andare in bici;  
  4. Strasburgo, dove sono stati costruiti 536 chilometri di piste ciclabili negli ultimi decenni, è da anni considerata la miglior città francese per le biciclette;  
  5. Eindhoven, presente nella classifica già dal 2011, senza tuttavia aver apportato, secondo i curatori, grosse innovazioni nel settore; 

    caption: Copenhagen, foto di barnyz via Flickrcaption: Amsterdam, foto di Ryan Taylorcaption: Utrecht, foto di Tom Juttecaption: Strasburgo, foto di ilovebuttercaption: Eindhoven, foto di Dan 

  6. Malmö, in cui da anni si investe con costanza e sapienza per migliorare le infrastrutture e la cultura delle bici: nel 2013 è stato aperto un grandissimo parcheggio per le bici nei pressi della stazione;
  7. Nantes, presente dal 2013 nella classifica del Copenhagenize Index, vede rafforzato l’impianto dedicato al sistema bicicletta grazie a costanti investimenti, ampiezza di vedute e collaborazione tra la città e le organizzazioni locali che già operavano nel settore delle bici; 
  8. Bordeaux, che perde tre posti in classifica delle migliori 20 città, perché non si percepisce lo stesso entusiasmo di qualche anno fa; tuttavia gli investimenti per le bici in città rimangono notevoli; 
  9. Anversa, si rivela la migliore città del Belgio per le bici, ma perde alcune posizioni a causa della nuova giunta comunale che sta cercando di “attirare più auto nel centro della città”;
  10. Siviglia, la migliore città spagnola per le biciclette, qualche anno fa arrivò al quarto posto in classifica, cambiando radicalmente in poco tempo la cultura delle bici in città. Da allora le cose non sono tuttavia cambiate molto, da qui il calo in classifica; 

    caption: Malmö, foto di La citta vitacaption: Nantes, foto di Fiona Campbellcaption: Bordeaux, foto di Yann Garcaption: Anversa, foto di Yelp Inc.caption: Siviglia, foto di adrimcm 

  11. Barcellona. Anni fa quasi non si vedevano biciclette in città, ora invece sono tantissime, grazie ad investimenti considerevoli per le infrastrutture e politiche per rendere la città più sicura per le bici e conquista l’undicesimo posto della classifica; 
  12. Berlino, con tantissimi ciclisti in giro, anche se le infrastrutture potrebbero essere decisamente migliori;  
  13. Lubiana, con costanti investimenti a partire dagli anni Settanta, la città entra per la prima volta nella top 20 grazie al rinnovato impegno delle ultime amministrazioni; 
  14. Buenos Aires, ove in pochissimo tempo sono stati costruiti ben 140 Km di piste ciclabili, generalmente divise dalla strada, ed è stato creato un buon servizio di bike sharing;
  15. Dublino, considerata da anni un’ottima città per le bici;

    caption: Barcellona, foto di naricecaption: Berlino, foto di Olley Coffeycaption: Lubiana, foto di Lubiana Mobility Weekcaption: Buenos Aires, foto di plaudi olivares medinacaption: Dublino, foto di Giuseppe Milo 

  16. Vienna, presente nella classifica del 2011 ma non in quella del 2013, torna ora grazie ai costanti investimenti che hanno esteso la rete di piste ciclabili anche fuori dal centro città, dove il traffico è limitato; 
  17. Parigi, che tra le grandi città del mondo è quella più attiva per le bici, anche se spesso mancano le conoscenze per scegliere le migliori soluzioni urbanistiche; i costanti investimenti degli ultimi anni e il successo del sistema di bike sharing, le consentono di stare nella classifica;  
  18. Minneapolis, la città statunitense ad essere inclusa nella classifica del Copenhagenize Index: ha raccolto molti punti bonus per l’impegno dimostrato negli ultimi anni da autorità locali e associazioni per migliorare la qualità dei servizi per le bici in città: per esempio ci sono quasi 400 Km di percorsi per le bici e piste ciclabili, sebbene infrastrutture e investimenti non siano ancora all’altezza delle grandi città europee;  
  19. Amburgo, dove sono presenti molte bici e una rete di piste ciclabili piuttosto ampia: le ultime amministrazioni, tuttavia, hanno scelto di non migliorarle in nessun modo;  
  20. Montreal, con ottime infrastrutture, molti ciclisti e diversi gruppi che si occupano di migliorare la situazione per le bici: da anni è una delle migliori città del Nord America per andare in bicicletta.

    caption: Vienna, foto di Ian Southwellcaption: Parigi, foto di Jean-Louis Zimmermancaption: Minneapolis, foto di Ernesto de Quesadacaption: Amburgo,foto di Rene Scaption: Montreal, foto di Lima Pix 

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Le Turf Houses islandesi candidate a patrimonio Unesco

“Turf”, in inglese, significa torba, ed è con questo materiale assolutamente naturale che in Islanda, fin dal nono secolo, si ricoprono i tetti delle case mantenendo inalterato nel tempo il tradizionale metodo costruttivo che le rende più affascinanti che mai e capaci di raccontare una loro storia. Una tradizione che ha fatto sì che queste singolari abitazioni (Turf houses, appunto) fossero candidate a Patrimonio Unesco

TETTI VERDI: SONO SICURI?

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Storia ed origini delle Turf Houses islandesi

Furono i coloni provenienti dal nord, come i Vichinghi, che introdussero questa nuova tecnica per contrastare in modo adeguato i climi rigidi invernali tipici di queste latitudini.

Ma, a differenza di paesi come la Norvegia, l’Irlanda, la Scozia, l’Olanda e la Groenlandia, dove la pratica di ricoprire i tetti di “turf” fu usata per realizzare abitazioni per le persone più povere, in Islanda le cose andarono diversamente; la tecnica del tappeto erboso fu introdotta per tutti i tipi di edifici e per tutte le classi economiche senza creare differenze tra ricchi e poveri, dalle residenze dei capi a quelle dei contadini, dagli edifici religiosi ai ricoveri per gli animali.

Ed è questo il principale motivo che le ha fatte candidare a Patrimonio Unesco come eccezionale esempio di “architettura vernacolare” (dal latino vernaculum, tutto ciò che era realizzato localmente).

L’evoluzione delle Turf Houses

Nel corso dei secoli, le turf houses, pur mantenendo i medesimi materiali da costruzione, hanno subito un’evoluzione nella forma, adattandosi di volta in volta al contesto e al mutare delle esigenze. Si è così passati dalla casa allungata stile nordico usata per lavorare e dormire, a più case collegate fra loro da un corridoio centrale, con una parte sopraelevata adibita a zona notte, ben riscaldata e isolata dall’ingresso.

Oggi queste case non sono tutte abitate, molte sono totalmente abbandonate oppure usate come depositi; restano in ogni caso la testimonianza diretta di una lunga tradizione storica e un solido collegamento con il passato, evidenziando il loro ruolo nel paesaggio rurale della campagna islandese. Da qui l’interesse culturale rivolto a queste costruzioni e sfociato nella candidatura Unesco.

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Come sono fatte le “case di torba”

Oltre alla torba che ricopre la sommità e le pareti, per la struttura si usano il legno e la pietra che, in certi casi, forma la base per il tetto. La durata di questi materiali è molto variabile. La torba subisce un inevitabile processo di deterioramento e va sostituita dopo i 20-70 anni in base a una serie di fattori che variano dalla sua composizione, al clima locale e all’abilità degli artigiani.

L’utilizzo della torba per la realizzazione dei tetti delle Turf Houses presenta molti vantaggi: si trova abbondantemente in Islanda ed è gratuita, trattiene bene il calore mantenendo uniforme la temperatura interna e non lascia passare le infiltrazioni d’aria. Pietre e legname possono essere invece riutilizzati.

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È cinese il primo tram a idrogeno del mondo

Nelle metropoli cinesi, soffocate dallo smog e dalla nuvola di polveri sottili che quotidianamente si eleva verso il cielo, pensare ad un mezzo di spostamento “pulito” sembrava più che altro affidarsi a un sogno. E invece è proprio Made in China il primo tram a idrogeno a impatto zero.

Dallo scorso marzo il tram “pulito” corre sui binari di Tsingtao, una metropoli cinese che conta ben 3 milioni di abitanti, rivolta verso Corea e Giappone.

Appena si vede il “tram che non inquina” un italiano tenderà a figurarsi nella mente una delle Frecce di Trenitalia. In effetti l’aspetto è proprio quello di un treno ad alta velocità, con un profilo morbido e proteso in avanti, in grado di tagliare l’aria come la lama affilata di un coltello, vincendo l’attrito che si genera. È arancione, modernissimo e velocissimo.

MOBILITÀ ELETTRICA: IL FUTURO È VICINO?

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Il tram a idrogeno: veloce e non inquina

Il tram arancione può viaggiare ad una velocità di 70 chilometri orari, mantenendo ritmi abbastanza sostenuti per un tram cittadino. A realizzare l’abitacolo è stata l’azienda Sifang, appartenente alla China South Rail Corporation. All’interno sono stati realizzati 60 posti a sedere e 320 in piedi, così da garantire un trasporto comodo, agevole e veloce a ben 380 passeggeri. 

Oltre alla rapidità e al design innovativo, ci sono altre caratteristiche che rendono il progetto particolarmente interessante dal punto di vista tecnologico ed economico. 

Il tram, infatti, risulta essere interamente sostenibile sia per il fatto che il ricorso all’idrogeno lo rende un mezzo di trasporto totalmente a impatto zero, sia perchè consente di ridurre gli sprechi economici legati al rifornimento di carburante. Il treno consuma pochissimo, tanto che, con un pieno, è in grado di coprire una distanza di circa 100 chilometri, corrispondenti tre viaggi consecutivi di andata e uno di ritorno tra i capolinea.

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Investimenti per il tram a idrogeno

Nonostante le titubanze iniziali per un paese che ormai fatica a credere esista qualcosa di veramente pulito, il Governo cinese sembra essersi convinto delle potenzialità insite nel progetto del tram a idrogeno. A questo punto, tuttavia, subentra un problema di primaria importanza: la mancanza di binari. In tutti i 9.597.000 chilometri quadri di superficie cinese, infatti, sono soltanto 83 i chilometri coperti da binari predisposti al passaggio di questo tipo di veicoli e si trovano esclusivamente in sette città.

Sarà stato proprio questo dato a spingere gli organi statali a stanziare quasi 30 milioni di euro per sostenere gli spostamenti attraverso l’idrogeno. L’obiettivo che il Governo della Cina si è posto è quello di incrementare il settore e di portare la lunghezza dei binari deputati agli spostamenti con tram a idrogeno a 1200 chilometri.

Sicuramente la somma è molto ingente, ma i Cinesi sembrano rispondere bene alla proposta e le imprese che si sono impegnate nella produzione di questi mezzi di trasporto sono particolarmente fiduciose riguardo alla buona riuscita dell’iniziativa.

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L’ideatore del tram a idrogeno: parla l’ingegnere Liang Jianying

A realizzare il progetto del tram “del futuro” è stato un gruppo di ingegneri della Sifang capitanato da Liang Jianying, che ha descritto il lavoro condotto dai professionisti lungo e meticoloso. In due anni di studio e di sperimentazione, continua l’ingegnere, sono stati fondamentali i supporti ricevuti dagli enti e istituti di ricerca locali.

Tra le prime città a vedere un tram a idrogeno sui binari urbani c’è stata Foshnan, l’anno scorso. Di fronte a questa proposta innovativa si è proceduto immediatamente all’incremento della linea ferroviaria e i lavori dovrebbero concludersi entro fine anno. L’investimento di Foshan ammonta a 72 milioni di dollari in favore della Sifang. Da questa collaborazione è nata una vera e propria partnership con l’obiettivo comune di fondare un centro di ricerca sull’idrogeno applicato ai mezzi di trasporto. 

Sicuramente il progetto, a prescindere dalle opere pubbliche che si realizzeranno o meno, presenta un forte impatto innovativo, apre le porte ad una nuova fonte di energia per spostarsi da un posto all’altro e può costituire una strada più che valida per salvaguardare la salute della gente cinese, messa costantemente a dura prova da tutto quello che la modernità è in grado di liberare nell’atmosfera.

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È cinese il primo tram a idrogeno del mondo

Nelle metropoli cinesi, soffocate dallo smog e dalla nuvola di polveri sottili che quotidianamente si eleva verso il cielo, pensare ad un mezzo di spostamento “pulito” sembrava più che altro affidarsi a un sogno. E invece è proprio Made in China il primo tram a idrogeno a impatto zero.

Dallo scorso marzo il tram “pulito” corre sui binari di Tsingtao, una metropoli cinese che conta ben 3 milioni di abitanti, rivolta verso Corea e Giappone.

Appena si vede il “tram che non inquina” un italiano tenderà a figurarsi nella mente una delle Frecce di Trenitalia. In effetti l’aspetto è proprio quello di un treno ad alta velocità, con un profilo morbido e proteso in avanti, in grado di tagliare l’aria come la lama affilata di un coltello, vincendo l’attrito che si genera. È arancione, modernissimo e velocissimo.

MOBILITÀ ELETTRICA: IL FUTURO È VICINO?

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Il tram a idrogeno: veloce e non inquina

Il tram arancione può viaggiare ad una velocità di 70 chilometri orari, mantenendo ritmi abbastanza sostenuti per un tram cittadino. A realizzare l’abitacolo è stata l’azienda Sifang, appartenente alla China South Rail Corporation. All’interno sono stati realizzati 60 posti a sedere e 320 in piedi, così da garantire un trasporto comodo, agevole e veloce a ben 380 passeggeri. 

Oltre alla rapidità e al design innovativo, ci sono altre caratteristiche che rendono il progetto particolarmente interessante dal punto di vista tecnologico ed economico. 

Il tram, infatti, risulta essere interamente sostenibile sia per il fatto che il ricorso all’idrogeno lo rende un mezzo di trasporto totalmente a impatto zero, sia perchè consente di ridurre gli sprechi economici legati al rifornimento di carburante. Il treno consuma pochissimo, tanto che, con un pieno, è in grado di coprire una distanza di circa 100 chilometri, corrispondenti tre viaggi consecutivi di andata e uno di ritorno tra i capolinea.

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Investimenti per il tram a idrogeno

Nonostante le titubanze iniziali per un paese che ormai fatica a credere esista qualcosa di veramente pulito, il Governo cinese sembra essersi convinto delle potenzialità insite nel progetto del tram a idrogeno. A questo punto, tuttavia, subentra un problema di primaria importanza: la mancanza di binari. In tutti i 9.597.000 chilometri quadri di superficie cinese, infatti, sono soltanto 83 i chilometri coperti da binari predisposti al passaggio di questo tipo di veicoli e si trovano esclusivamente in sette città.

Sarà stato proprio questo dato a spingere gli organi statali a stanziare quasi 30 milioni di euro per sostenere gli spostamenti attraverso l’idrogeno. L’obiettivo che il Governo della Cina si è posto è quello di incrementare il settore e di portare la lunghezza dei binari deputati agli spostamenti con tram a idrogeno a 1200 chilometri.

Sicuramente la somma è molto ingente, ma i Cinesi sembrano rispondere bene alla proposta e le imprese che si sono impegnate nella produzione di questi mezzi di trasporto sono particolarmente fiduciose riguardo alla buona riuscita dell’iniziativa.

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L’ideatore del tram a idrogeno: parla l’ingegnere Liang Jianying

A realizzare il progetto del tram “del futuro” è stato un gruppo di ingegneri della Sifang capitanato da Liang Jianying, che ha descritto il lavoro condotto dai professionisti lungo e meticoloso. In due anni di studio e di sperimentazione, continua l’ingegnere, sono stati fondamentali i supporti ricevuti dagli enti e istituti di ricerca locali.

Tra le prime città a vedere un tram a idrogeno sui binari urbani c’è stata Foshnan, l’anno scorso. Di fronte a questa proposta innovativa si è proceduto immediatamente all’incremento della linea ferroviaria e i lavori dovrebbero concludersi entro fine anno. L’investimento di Foshan ammonta a 72 milioni di dollari in favore della Sifang. Da questa collaborazione è nata una vera e propria partnership con l’obiettivo comune di fondare un centro di ricerca sull’idrogeno applicato ai mezzi di trasporto. 

Sicuramente il progetto, a prescindere dalle opere pubbliche che si realizzeranno o meno, presenta un forte impatto innovativo, apre le porte ad una nuova fonte di energia per spostarsi da un posto all’altro e può costituire una strada più che valida per salvaguardare la salute della gente cinese, messa costantemente a dura prova da tutto quello che la modernità è in grado di liberare nell’atmosfera.

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Guida all’acquisto del regalo di Natale per un architetto + 10 idee

Devi fare un regalo di Natale ad un amico architetto o alla fidanzata che ha appena ricevuto un incarico come direttore dei lavori? Niente panico.

Gli architetti sembrano esseri difficili, a volte snob, spesso si credono artisti incompresi, ma fare loro un regalo non è cosa impossibile. L’importante è evitare questi 4 errori da principiante e seguire questi (ironici) consigli:

  1. Evita fronzoli, merletti, decorazioni. Orientati piuttosto su un oggetto dalle linee pulite e semplice, senza fronzoli. L’essenzialità è una regola d’oro.
  2. Se sei indeciso tra un oggetto colorato o nero, non farti prendere dalla voglia di aggiungere un tocco di colore al guardaroba del tuo amico: potrebbe essere un grave errore. Ricordati che l’architetto per antonomasia si veste di nero dalla testa ai piedi.
  3. Pensa ad un regalo di Natale che lo faccia sentire un po’ più figo sul luogo di lavoro. Non potrai sbagliare.
  4. Non cadere nel tranello dell’elettronica: il tuo amico architetto avrà sicuramente il gadget più avanzato di quello che trovi sullo scaffale (anche virtuale) del tuo negozio di fiducia.
In copertina: Christmas gift box on white carpet in front of tree di Melpomene, via Shutterstock.

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Se questi consigli e suggerimenti sugli errori da evitare non sono sufficienti a fare accendere la lampadina e farti venire in mente un bel regalo di Natale per il tuo amico architetto, passiamo a qualche suggerimento pratico. Abbiamo infatti collezionato 10 idee per un regalo allo stesso tempo utile, semplice, professionale e in qualche modo legato al mondo dell’architettura. Crediamo che gli architetti potrebbero apprezzarli trovandoli sotto l’albero di Natale.

Regali professionali per un architetto

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Intramontabile, indispensabile, essenziale. Con un portamine non puoi sbagliare. Qualsiasi architetto che si rispetti ne possiede almeno uno, e si aggira spesso nei negozi specializzati in articoli per il disegno in attesa di aggiungerne qualcun altro alla propria collezione. Questo portamine della storica azienda italiana Kok-I-Noor è essenziale ed è prodotto da una realtà attiva nel mondo del disegno dal 1790.

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Oltre al portamine, c’è un altro oggetto che non può mancare ad un architetto. La Moleskine. Nera, ovviamente! Meglio se a pagine bianche.

Proteggere il proprio cellulare in cantiere è fondamentale. Polvere, sporco, urti e cadute potrebbero danneggiarlo. Una cover protettiva è fondamentale. Se utile anche a ribadire il proprio ruolo di architetto, ancora meglio. È disponibile per tantissimi modelli di cellulare.

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È chiaro che gli architetti tra tutti i colori prediligono il nero. Se proprio non deve essere nero, che sia bianco. Una sola eccezione: i Pantone. Questo brand ha finalmente portato un po’ di colore nella vita degli architetti, troppo impegnati a trascorrere le proprie nottate al pc per poter pensare a come abbinare i colori dei propri vestiti. Ebbene sì, se scegliete un oggetto della collezione di Pantone, può avere un colore. Se non volete arrendervi al nero Oltre alla cover per iPhone (che ho scelto di proporvi in giallo ma le opzioni sono tantissime) altre idee colorate sono una tazza pantone o una carinissima pallina Pantone per l’albero di Natale

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In alternativa, perfetto per chi ha recentemente inaugurato il proprio studio, un originale quadro raffigurante una citazione del famoso architetto Frank Lloyd Wright

Regali per il tempo libero di un architetto 

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Che ci creda o no, anche gli architetti hanno del tempo libero. Per lo più però lo trascorrono tentando di risolvere i crash di Autocad o leggendo libri di architettura. Per tentare di distrarli provate con un puzzle 3D. Di un edificio, ovviamente. Ce ne sono di diversi che raffigurano il Big Ben, la Torre Eiffel ed una versione completa del Colosseo. Per gli appassionati di calcio consigliamo il puzzle 3D dello stadio della Juventus, il Santiago Bernabeu o lo Stadio Olimpico di Roma.   

Gli intramontabili mattoncini Lego ora sono di moda anche tra i grandi. La serie Architecture è dedicata ad edifici famosi e ben noti a tutti gli architetti come Ville Savoye e la Sidney Opera House.

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Per convincere il tuo amico architetto ad uscire un po’ più spesso puoi provare a regalargli dei gemelli a forma di squadretta. Così non si allontanerà mai troppo dalla sua amata professione. 

In generale, se preferisci qualcosa di più serio, con una monografia di un architetto famoso o un libro di architettura vai sul sicuro. Ma abbiamo scovato qualcosa di più particolare, con cui crediamo possa fare centro. 

Ironico, il libro “Maledetti Architetti – dal Bauhaus a casa nostra” di Tom Wolfe analizza in modo divertente gli errori progettuali delle case moderne esaltando invece la semplicità e l’efficienza del Bauhaus e ridendo sugli architetti che rubano dal mondo della moda le parole per descrivere i propri progetti.

La recita dell’architetto – 1532 film e un videogioco”, è invece consigliato per gli amanti dell’architettura come del cinema. Questo libro infatti sottolinea lo stretto legame tra le due arti raccogliendo ben 1532 film in cui l’architetto è protagonista

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Il riuso creativo per le decorazioni natalizie

Il 29 novembre, prima domenica del tempo di Avvento, si sono aperte a tutti gli effetti le porte del Natale 2015. In ogni parte del mondo ci si sta adoperando per tirare fuori l’albero di Natale. C’è qualcuno, tuttavia, che per questo Natale vuole optare per una soluzione alternativa, vuole lasciar perdere davvero il consumismo e dedicarsi al design fai da te e al riuso creativo anche per le decorazioni natalizie.

ALBERI DI NATALE: NON SOLO ABETI

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Sono tanti gli spunti da cui partire per realizzare da soli e con materiali altrimenti destinati ad essere accantonati o gettati nella spazzatura un albero di Natale basato sulla filosofia del “riciclo creativo”. Lo stesso discorso vale per addobbi, decorazioni, festoni, centrotavola e segnaposti, tutti oggetti che si prestano bene alla possibilità di personalizzazione e, se realizzati in autonomia, sono fonte di grande soddisfazione.

Natale 2015: un albero fatto… con gli alberi

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Il legno può essere utilizzato anche per realizzare un originale, economico e sostenibile albero di natale. Tutto quello che bisogna fare è procurarsi un vecchio pallet, uno di quelli che troppo spesso si lasciano ad attirare ragnatele e tarli nell’angolo più remoto del garage. Il passaggio successivo consiste nel rimuovere le assi e i chiodi, per poi procedere alla “ricomposizione” degli elementi, questa volta a forma di albero.

Il legno può essere usato anche allo stato più puro, ricavando i rami dell’albero di Natale proprio da quelli che, una volta, erano i rami dell’albero trasformato in combustibile per i camini. Un’ulteriore possibilità consiste nell’applicazione, alla parete, di tante piccole porzioni di tronco, tagliate in senso ortogonale alle fibre, o di assi lignei, disegnando con essi la forma di un abete.

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Un albero di Natale di libri 

Tante volte capita di guardare la libreria che si ha in casa e rendersi conto che buona parte dei libri in essa contenuti sono stati letti una volta sola e poi messi da parte. È arrivato il momento di riprenderli. Una tendenza non troppo diffusa ma molto originale per utilizzare in modo creativo “la cultura” è quella di creare un albero di Natale proprio con i libri. Ricavare la forma di albero è semplice, basta apparecchiare i filari di testi con un andamento conico. Per la decorazione, invece, si può dare libero sfogo alla fantasia, partendo una collezione di angioletti handmade, per arrivare a palline ottenute da un lavoretto in stile Art-Attack con spago e colla vinilica. Le idee sono tante, ma la fantasia di ciascuno di noi può partorire invenzioni sempre diverse e uniche, per le quali è arrivato il momento di scendere in campo.

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Alberi alternativi: l’addobbo sospeso

Una soluzione un po’ più vista nel corso degli anni, ma sempre di grande impatto estetico e visivo è quella che prevede la definizione di una sagoma tridimensionale di abete appendendo delle palline ad un filo di nylon. Questo, a sua volta, è fissato al soffitto e lascia gli addobbi liberi di fluttuare nell’aria, pur mantenendo sempre una forma riconoscibile. Il risultato è un albero che, alla sola vista, riesce a infondere un senso di serenità, a ricreare un’atmosfera paradisiaca e angelica.

Lo stesso metodo può essere usato anche applicando al filo delle decorazioni fatte a mano, come degli origami impreziositi da una puntina di porporina, delle pigne dipinte in oro e argento oppure dei fiocchetti ricavati a partire dai nastrini di vecchi regali che sono stati tenuti da parte perché “non si sa mai”. Ogni nuova idea è ben accetta e sarà in grado di rendere unico l’albero “fluttuante” che si realizzerà.

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Addobbi riciclati

Il riuso creativo non si presta soltanto alla realizzazione di alberi di natale. Anche per le tavole imbandite a festa, infatti, si tende a cercare soluzioni originali per rendere indimenticabili le serate in compagnia di amici e parenti, all’insegna dell’allegria e del divertimento.

Esistono idee particolarmente originali, perfette per abbellire con semplicità e creatività le tavolate dei cenoni.

I tappi di sughero, che portano tanta fortuna quando cadono addosso direttamente dalle bottiglie, possono essere utilizzati per “disegnare” un alberello segnaposto. Basteranno anche solo tre tappi posizionati a forma triangolare, fissati con qualche goccia di colla e arricchiti da un nastrino rosso per creare la chioma di un albero di Natale in miniatura. Un altro tappo, questa volta orientato in senso verticale, incollato alla base del trio farà da tronco.

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Una composizione di pigne, invece, può diventare un originale centrotavola, impreziosito da qualche candela e un paio di rametti secchi intervallati da una bacca di pungitopo inserita qua e là.

Anche i gomitoli di lana o delle palline ricoperte da uno strato di maglia lavorata a mano, possono essere utilizzati come decorazione. Nella loro tinta originale, dopo una leggera spolverata di porporina, oppure abbelliti da un ricamo particolare, potrebbero diventare, attraverso l’applicazione di un gancino, delle palline per uno degli alberi low cost appena realizzati.

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La “festa del consumismo” all’insegna del rispamio

Le idee che si possono proporre sono veramente tante, ma quello che sta alla base di un’attività del genere è una vera e propria filosofia: si tratta di entrare nell’ottica del risparmio e, soprattutto, del voler evitare gli sprechi economici legati troppo spesso al Natale. Una festa che celebra la nascita di Gesù, povero, vestito solo di stracci, in una capanna martoriata dal freddo gelido diventa la culla del consumismo, dello spreco e dell’eccesso. Mai, come in questo momento dell’anno, si dovrebbe cercare di usare quello che si ha, approfittando anche del fatto che questa scelta mette in moto la fantasia e l’ingegno, oltre a dar vita a decorazioni uniche nel loro genere e sempre originali, proprio perché frutto della creatività di persone diverse tra loro.

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Bioagriturismi e fattorie didattiche. Tra turismo e sostenibilità

Il turismo è una delle principali attività produttive del nostro Paese ed è anche il settore che risente meno della crisi, come dimostra il fatto che buona parte degli italiani è disposta a rinunciare a tutto, tranne alla vacanza. 

Nell’ambito delle strutture turistiche sempre più numerose nel Bel Paese, quelle che, nell’ultimo periodo, sembrano essere preferite dai viaggiatori sono gli agriturismi. A confermarlo è un rapporto redatto da Coldiretti per l’estate 2015 in relazione ai dati forniti da Terranostra e Federalberghi: le presenze nelle strutture turistiche “di campagna” hanno subito un incremento del 10% rispetto all’anno precedente, toccando i 6 milioni di check-in durante tutta la stagione estiva.

IL BIOAGRITURISMO PASSATO IN CLASSE A

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Bioagriturismo: agricoltura biologica ed etica professionale

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Il dato della Coldiretti su bioagriturismi e fattorie è particolarmente confortante se si pensa agli sforzi compiuti da proprietari e istituzioni nel sensibilizzare i “fruitori-turisti” ad optare per una vacanza responsabile e rispettosa dell’ambiente e del territorio. La filosofia che sta alla base delle aziende agrituristiche, del resto, è proprio il rispetto della natura: sfruttare con criterio la terra in cui sorgono e trarre da essa i prodotti che servono sulla tavola dei propri ospiti, senza “violentare” quella fonte inesauribile di ricchezza.

L’attività agrituristica, infatti, è in grado di tutelare indirettamente il paesaggio, instaurando uno stretto legame tra lo sfruttamento delle risorse ambientali e i prodotti aziendali. In altri termini, essendo interesse del gestore dell’agriturismo stesso ottenere e offrire prodotti di alta qualità, costui si impegna a sfruttare in modo responsabile e sostenibile le risorse che la natura gli mette a disposizione.

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Nel settore agrituristico sta prendendo sempre più piede la forma del “bioagriturismo”, struttura ricettiva a cui è data la possibilità, previo ottenimento di una specifica certificazione, di produrre e vendere i prodotti agricoli biologici coltivati e raccolti in loco. Tale certificazione viene rilasciata dall’AIAB – Associazione Italiana per l’Agricoltura Biologica ed è attiva dal 1998, individuando quotidianamente aziende che svolgono questo tipo di attività. L’obiettivo dell’AIAB è quello di controllare che i bioagriturismi non soltanto rispettino le regole di un’agricoltura biologica, ma si impegnino a gestire l’attività ricettiva secondo norme etiche ed ecologiche dettate da ICEA (Istituto per la Certificazione Etica e Ambientale). All’Istituto è affidato anche il compito di verificare che l’azienda si attenga a tali disposizioni.

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Il bioagriturismo si può definire a pieno titolo una struttura ricettiva sostenibile, in quanto la sua attività è basata sulla sinergia che il gestore riesce a creare tra rispetto profondo nei confronti dell’ambiente e servizio offerto ai clienti proprio grazie a quell’ambiente tutelato.

Le azioni che i proprietari di un bioagriturismo possono avviare per rientrare in questa cerchia di strutture turistiche sono l’impegno al risparmio di energia, l’utilizzo consapevole delle risorse energetiche a disposizione e il ricorso a fonti alternative e rinnovabili. È necessario, inoltre, che il bioagriturismo si impegni a limitare il consumo idrico e ad organizzare un sistema di riciclo delle acque reflue.

Al bioagriturismo viene assegnato un compito importantissimo, quello di sensibilizzare i giovani, attraverso un’attività didattica mirata, a rispettare e, soprattutto, scoprire la natura, il paesaggio e l’ambiente, comprendendo le leggi che li regolano e la collaborazione che si instaura tra il mondo naturale e lo sfruttamento consapevole dell’uomo. Sono queste le tematiche affrontate dalle aziende agrituristiche che ricadono anche nella categoria delle fattorie didattiche.

Le Fattorie Didattiche

Con l’attività di Fattoria Didattica, l’azienda agricola sfrutta la sua condizione di essere contestualmente anche agriturismo per spiegare, a visitatori piccoli e grandi, come il lavoro in campagna venga svolto in perfetta armonia con l’ambiente circostante e con quello che offre. In particolare sono approfonditi le tecniche di trattamento dei prodotti biologici affinché questi restino tali, il legame tra la fauna naturale della campagna e la trasformazione dei prodotti in “cibi” di elevata qualità, l’importanza per il consumatore di optare per questo genere di alimenti, facendo del bene a se stesso e all’ambiente.

La storia della fattoria didattica e il suo arrivo in italia

Le Fattorie Didattiche affondano le loro radici nei primi anni del XX secolo, quando le aziende agricole di Norvegia, Danimarca e Svezia cominciano ad aprire le loro porte ai “cittadini” per illustrare come si vive in campagna. L’iniziativa risulta così interessante da propagarsi a macchia d’olio in tutta Europa, raggiungendo, negli anni Settanta, anche le coste del Mediterraneo.

L’idea della “fattoria didattica” nasce a partire da un movimento giovanile statunitense datato 1914 e tuttora esistente. Si tratta del Club 4H, dove la lettera “h” sta ad indicare le quattro parole headhealthheart e hand (testa, salute, cuore e mani). L’obiettivo del movimento è quello di promuovere una crescita personale dell’individuo attraverso un metodo di insegnamento racchiuso nello slogan “learn to do by doing (imparare facendo)”.

Dopo la Seconda Guerra Mondiale le fattorie didattiche arrivano prima in Germania, con l’obiettivo di far conoscere ai ragazzi di città gli animali della fattoria, e poi in Olanda, con il nome di “City Farms” e la funzione identica a quella dell’iniziativa tedesca.

Seguono, negli anni Settanta, le fattorie didattiche dei Gran Bretagna e Belgio. Nel Paese della Regina le City Farms sono utilizzate anche per recuperare luoghi cittadini abbandonati.

L’Italia è l’ultima ad interessarsi a questa nuova forma di insegnamento e accoglie le fattorie didattiche soltanto negli anni Novanta, quando l’associazione Alimos e alcuni imprenditori della provincia di Forlì-Cesena costituiscono una “Rete delle Fattorie Didattiche Romagnole”. Da allora, fino al 2010, il numero delle fattorie didattiche italiane accreditate è arrivato a 1936.

Il contest che premia gli agriturismi sostenibili

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Il tema del rispetto dell’ambiente è particolarmente sentito dai gestori di strutture agrituristiche, come ha dismostrato l’ampia partecipazione al contest “Agriturismo e Sostenibilità” indetto da Agriturismo.it.

Sono stati 300 gli agriturismi che hanno chiesto di partecipare al concorso per dimostrare il loro interesse nei confronti delle pratiche rispettose dell’ambiente e del territorio e il loro impegno a produrre in modo consapevole e responsabile. L’esito del contest è stato l’individuazione delle pratiche a cui gli agriturismi italiani ricorrono maggiormente per dare il loro contributo in favore della sostenibilità. La vendita dei prodotti a km0, freschi o trasformati, direttamente in azienda ricopre la fetta di torta più abbondante, essendo praticata dall’85% delle strutture agrituristiche italiane. Seguono il ricorso a tecniche agricole finalizzate alla riduzione di emissione di CO2, con una percentuale di applicazione dell’83% e la realizzazione di infrastrutture verdi, praticata dal 76% degli agriturismi. Ultima, non per importanza, è l’agricoltura biologica a cui si cerca di sensibilizzare sempre più intensamente negli ultimi tempi. È il 67% delle strutture agrituristiche ad optare per questo tipo tecnica agricola.

Fabrizio Begossi, Product Manager di Agriturismo.it, in occasione del contest, ha espresso il suo interesse a “tenere alta l’attenzione sul tema della sostenibilità ambientale”. Un’agricoltura sostenibile e un turismo responsabile, ha precisato Begossi, “sono alla base della difesa di ambiente e paesaggio. Gli agriturismi, del resto, fanno del luogo in cui sorgono la propria fonte di ricchezza e la tutela del territorio potrebbe costituire un punto di partenza per lo sviluppo della struttura ricettiva in questione. A questo punto, perché non impegnarsi per curare, preservare e rendere migliore il posto dove si vive e si lavora?

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Elogio del muschio: paesaggi norvegesi a Londra

La natura si insedia sempre più in città, grazie alle living walls, agli orti e ai parchi urbani. Si aggiungono ora anche graffiti ecologici e pareti di muschio e licheni. Dopo l’esordio in piccoli interventi di guerriglia urbana, diventano addirittura i protagonisti dell’installazione “Moss your city” realizzata dallo studio Pushak. Paesaggi e odori delle foreste norvegesi si materializzano a Londra: sulle pareti di espanso sono fissate zolle di muschio prelevato dai boschi, mentre grazie ad aperture asimmetriche il visitatore può percorrere una sorta di galleria-labirinto. L’atmosfera, seppur in scala ridotta, è quella di una grotta naturale umida e verdeggiante.

Tecniche e progetti per il verde verticale

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L’architettura vuole ancora una volta incontrare la natura restituendo prestigio ad un elemento, il muschio, da sempre visto come nemico delle costruzioni. Pensato e pianificato può, invece, diventare una componente positiva dell’architettura e dei giardini. Del resto nei giardini giapponesi, nelle pavimentazioni in pietra e adesso anche nelle living walls, i risultati ottenuti sono piuttosto sorprendenti. È possibile sfruttarne la versatilità, l’abbondanza in natura e la bassa manutenzione necessaria dopo l’installazione, mantenendo sempre condizioni di alta umidità e poca luce. Ricoprire di muschio e licheni città, ambienti interni e giardini sta diventando un nuovo trend, un tipo di inverdimento più sostenibile ed economico delle pareti verdi.

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L’installazione di Londra, presentata nel Festival dell’Architettura del 2010, è il primo progetto estero del collettivo femminile di Oslo, nato da un programma di scambio dell’Architecture Foundation per architetti emergenti in Norvegia e nel Regno Unito. L’intento è di incantare e di perdersi nel labirinto verde, celebrando i paesaggi scandinavi e il muschio come materiale interessante, che può lavorare in armonia con il design contemporaneo.

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In realtà il muschio fissato alle pareti non può più crescere, ed ha più una valenza estetica che ecologica. Gli architetti Pushak hanno, però, deciso di studiare la relazione tra architettura contemporanea e i paesaggi norvegesi, adattandoli all’ambiente londinese e alle esigenze espositive. Al termine della galleria vegetale, cartoline esplicative riportavano sul retro la ricetta dei graffiti di muschio.

Se volete realizzare un eco-graffito basta seguire le semplici istruzioni presenti su wikiHow con pochi ingredienti quale muschio, yogurt e birra.

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Surriscaldamento globale: uno studio rivela il ruolo delle fonti rinnovabili

Piogge incessanti d’estate, temperature elevate d’inverno: il fatto che “non esistono le mezze stagioni” non è più soltanto un detto popolare. Il clima sta cambiando, il Pianeta si sta surriscaldando e la colpa è dell’uomo. È quanto emerge da un report reso noto da IRENA – Agenzia Internazionale per le Energie Rinnovabili.

Lo studio, intitolato “REthinking Energy 2015 – Renewable Energy and Climate” ha portato gli esperti a rendersi conto di come l’uso di energie rinnovabili, associato all’impegno nel raggiungimento dell’efficienza energetica, possano inibire l’aumento della temperatura globale. Ne deriva che, se ciò non accade, l’energia che alimenta le abitazioni in cui viviamo non proviene da fonti rinnovabili e che l’uomo non si sta impegnando per salvare il pianeta che, nonostante tutto, continua ad ospitarlo.

L’ONU PREMIA 17 PROGETTI CONTRO I CAMBIAMENTI CLIMATICI

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Rapporto IRENA: fonti rinnovabili per due gradi in meno

“La produzione di energia è causa di oltre i due terzi delle emissioni di gas serra”, ha affermato il direttore generale di IRENA, Adnan Z. Amin. Per contrastare il surriscaldamento basterebbe produrre appena il 36% dell’energia a partire da fonti rinnovabili per ottenere, entro il 2030, una riduzione della temperatura globale di almeno due gradi.

Il rapporto su rinnovabili e clima è stato presentato in occasione del decimo Council Meeting tenutosi ad Abu Dhabi proprio in questi giorni. Il pubblico che assiste all’evento conta, ogni anno, 250 partecipanti di 80 nazionalità diverse. L’obiettivo è quello di sensibilizzare, attraverso uno studio concreto, lontano dai meri esperimenti accademici, quante più personalità possibili ad instaurare legami e accordi volti a supportare il lavoro di IRENA e ad intervenire in favore dell’ambiente.

Seguendo il consiglio di IRENA, infatti, si potrebbero spuntare dalla lista 12 dei 17 Sustainable Developement Goals posti dall’ONU per promuovere lo sviluppo sostenibile, la coerenza e l’integrazione delle politiche degli stati membri e l’intervento degli stessi attraverso azioni sociali, economiche e ambientali.

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Le fonti rinnovabili: fonti di energia e di lavoro

Il REthinkin Energy ha mostrato vantaggi economici associati a quelli climatici in caso di uso di fonti energetiche rinnovabili. Impegnandosi per contribuire alla riduzione del surriscaldamento globale e cercando di raggiungere l’obiettivo individuato dagli studiosi, le aziende del settore potrebbero incrementare notevolmente il numero dei posti di lavoro. Attualmente l’industria delle energie rinnovabili permette a 7,7 milioni di persone di procurarsi da vivere. Raggiungendo quel famoso 36%, invece, entro il 2030 il numero degli assunti potrebbe salire a 24 milioni a livello mondiale.

È opportuno, tuttavia, procedere con calma e tener presente che, come viene evidenziato nello studio stesso, per raggiungere il range indicato entro il 2030 occorrerebbe moltiplicare per 6 volte rispetto ai numeri attuali gli impianti di produzione di energia a partire da fonti rinnovabili. In termini di costi questo equivale a chiedere un investimento annuo globale pari al doppio o al triplo di quello odierno. Si raggiungerebbero cifre superiori ai 500 miliardi di dollari fino al 2020 e ai 900 miliardi di dollari fino al “tanto atteso” 2030.

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Come “guadagnare” i due gradi

In relazione al fatto che l’investimento economico si presenta particolarmente oneroso per i finanziatori, il report propone una strategia d’azione da attuarsi attraverso una serie di step. Prima di tutto occorrerà rafforzare i legami e gli impegni politici presi dagli stati aderenti all’iniziativa, successivamente occorrerà attivare gli investimenti. A questo punto entreranno in gioco le istituzioni, che avranno il compito favorire il ricorso alle fonti rinnovabili da parte dei singoli paesi. Una volta consolidato il sistema statale toccherà alle regioni intervenire, rafforzando il loro impegno nel tentativo di rendere sostenibile il territorio di competenza.

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Adnan Amin, direttore generale di IRENA è più che fiducioso rispetto all’iniziativa e ha affermato: “Il grande business delle rinnovabili ha reso la transizione energetica inevitabile. La domanda che bisogna porsi, a questo punto, è quanto tempo passerà prima che il nostro pianeta si proietti veramente verso un futuro sostenibile e “rinnovabile”. Per il momento tra le speranze di IRENA c’è la COP 21 di Parigi sul Clima, durante la quale, secondo Amin, i paesi coinvolti dovranno dare un segnale concreto di interesse verso un progetto a favore dell’ambiente e delle fonti energetiche che lo rispettano e, in qualche modo, cercano di salvarlo, contrariamente a quanto fa la mano distruttiva dell’uomo.

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Searching for sustainability street: un viaggio alla ricerca della sostenibilità

Che cosa accade quando un trentunenne peruviano incontra una ventottenne belga? Un viaggio all’insegna della sostenibilità!

No, non è uno scherzo; quella che segue è una storia vera, un progetto concreto di un viaggio lungo un anno, un documentario, attraverso 20 paesi e più di 20 mila chilometri, alla ricerca di uno stile di vita sostenibile: “Searching for Sustainability Street. 21.500 km. 20 countries. 1 documentary.”

In copertina: il percorso del viaggio sulla “Sustainability street”.

Viaggiare sostenibile: le regole delle 3E del turismo slow

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Searching for sustainability streets: gli ideatori del viaggio

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I protagonisti sono Bruno Crepa Moreno e Lana Meeusen.

Bruno, che si definisce un ottimista, in seguito ai suoi studi di cinematografia che lo hanno portato a vivere in Perù, in Italia, in Russia, in Spagna ed in Belgio, si è reso conto che la società moderna, a dispetto delle differenze culturali, è concentrata sul raggiungimento di un unico scopo: il successo economico, a qualunque costo. Questa consapevolezza ha acceso il suo interesse per la sostenibilità da cui è scaturito il progetto; il desiderio di cambiare le cose e la sua esperienza nella produzione e nella regia hanno fatto il resto.

Il destino di Lana, che parla di sé come di una sognatrice, sembra segnato fin da bambina, quando insieme ad un amico ha realizzato il suo primo orto, tra tentativi riusciti e fallimenti.

Nel corso degli anni il suo interesse per la sostenibilità è cresciuto con lei e l’orto si è presto trasformato in un progetto di permacultura in Thailandia. Dopo una tesi sul confronto tra agricoltura industriale e colture a piccola scala, Lana ha realizzato l’importanza di uno stile di vita davvero sostenibile e per trovare una soluzione alle molte domande a cui ancora non sa dare risposta ha deciso di intraprendere questo viaggio, con un’unica certezza: il suo posto non è “la giungla urbana occidentale” lavorando dalle 9 alle 17. 

caption: Casa Maty in Spagna, sede di un’associazione che offre l’opportunità di assaporare uno stile di vita ecologico offrendo pasti salutari e mettendo a disposizione terreni in cui coltivare verdure biologiche. Sarà una delle prime tappe del viaggio.

Gli obiettivi del viaggio documentario

Bruno e Lana si sono dati un anno di tempo, a decorrere da Maggio 2016, un itinerario ben preciso, lungo 21.500 km, che parte dalla Spagna e attraversa l’Europa per arrivare fino al sud- est asiatico, dopo aver attraversato 20 paesi. La regola del viaggio è una: effettuare la loro avventura via terra in modo da ridurre al minimo le emissioni.

Nel corso del viaggio lungo la “sustainable street” realizzeranno un documentario su comportamenti, iniziative e misure adottate da differenti persone nel mondo per vivere rispettando l’ambiente; tali forme di sostenibilità saranno analizzate dal punto di vista ecologico ma anche sociale ed economico, in ambienti sia urbani che rurali e con diversi gradi di coinvolgimento: comunità internazionali, progetti di quartiere, ONG, giardini comunali, iniziative individuali.

caption: A Casa Maty alcuni volontari lavorano al loro orto biologico

Lo scopo del documentario, patrocinato dal celebre regista e produttore televisivo belga Nic Balthazar, è quello di ricercare un nuovo modo di vivere e condividerlo con il maggiore numero di persone possibile ma soprattutto…ispirare il maggior numero di persone possibile!

Vivete lentamente. Siate consapevoli. Siate critici.” esorta a tal proposito Lana dalle pagine del loro blog o, per meglio dire, del loro diario di viaggio.

La società infatti è ormai governata dalla logica del volere tutto e subito senza però fermarsi a riflettere e a domandarsi a quale costo stiamo ottenendo tutto ciò. Viviamo in un mondo in cui le persone sono ancora sfruttate, il nostro cibo è pieno di agenti chimici, il clima sta cambiando e gli effetti che lo sviluppo sconsiderato ha sull’ambiente non sono più un tabù.

Molte persone sono consapevoli che sia necessario cambiare il proprio modo di vivere per consegnare un mondo migliore alle future generazioni, ma bisogna essere anche coscienti del fatto che il nostro pianeta e le specie che lo abitano “hanno una data di scadenza” ed è giunto il momento di agire concretamente.

Bisogna perciò tenere a mente una fondamentale verità: il momento più importante delle nostre vite è adesso “perché è quello che stiamo facendo oggi che definisce quello che diventeremo domani e quello che diventeremo domani determinerà sempre la qualità e la direzione delle nostre vite”. (Hal Elrod)

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Saie Smart House: i progetti di urbanistica più green

Anche quest’anno il SAIE, Salone dell’Innovazione Edilizia di Bologna, ha voluto premiare i progetti di urbanistica che meglio hanno saputo interpretare il concetto del green building, attraverso la riqualificazione architettonica degli spazi urbani e delle aree industriali in disuso.

Il premio RI.U.SO di Saie Smart House 2015 dedicato all’urbanistica green e alla rigenerazione urbana sostenibile è stato assegnato dalla giuria che ha valutato gli aspetti urbanistici legati alla sostenibilità del progetto, con particolare attenzione al concetto di densificazione e rigenerazione urbana per ridurre il consumo di territorio.

IL RICICLO DEI VUOTI URBANI: UN PROGETTO IN SPAGNA

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I PROGETTI VINCITORI DEL PREMIO RI.U.SO.

“Ripartire dalla città esistente”  vincitore per la sezione architetti

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Il progetto di via Andrea Costa portato avanti dal gruppo di lavoro con a capo Mauro Sarti è riuscito a trasformare un luogo, che fino a prima era solamente di passaggio e di parcheggio, in uno spazio a servizio della comunità dotato di una zona verde attrezzata che mira al raggiungimento di un’idea di boulevard sempre più sentita nella città contemporanea. L’intervento ha trasformato la strada esistente in un grande viale alberato con uno spazio verde che ha triplicato le sue dimensioni, attraverso il ridisegno anche dei giardini vicini. Il progetto mette in gioco una nuova visione della città dove in primo piano si trovano gli spazi verdi per la socialità, costruiti per rispondere alle esigenze dell’uomo prima di tutto. Lo spazio verde rimane integro, non viene corrotto dalla necessità di trovare risposta alle esigenze più pratiche, relegate infatti ad un livello secondario: la nuova isola ecologica viene realizzata al di sotto del livello stradale, utilizzando uno spazio che di più si presta a svolgere una funzione di questo tipo, garantendo anche un maggior risultato non solo dal punto di vista progettuale, ma anche pratico.

“Rehabitar” vincitore per la sezione Università Enti Fondazioni e Associazioni

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La continua trasformazione della città contemporanea ha messo in moto un processo di reinterpretazione dei vecchi poli industriali e artigianali dismessi; il Poblenou, quartiere storico di Barcellona è uno di questi spazi che si è caratterizzato negli ultimi vent’anni per una serie di profondi cambiamenti. Questo continuo processo di trasformazione, che attualmente muove ancora le sue macchine, ha contribuito però a creare un tessuto disomogeneo che spesso è rimasto inconcluso. È proprio su questo che i progettisti, capitanati da Sara Neglia, si sono concentrati, con l’obiettivo di ridare vita ad un distretto industriale ormai dismesso. L’idea di progetto si basa su una proposta che abbia come risultato la formazione di un modello per una strategia di riuso articolata in tre fasi, con lo scopo non tanto di definire un’architettura, ma piuttosto diffondere un processo di trasformazione che riesca a fondere i nuovi sistemi con l’esistente. L’integrazione diventa così un punto fondamentale dell’intero percorso progettuale, attraverso la sperimentazione e la partecipazione attiva dei cittadini che vivono questi spazi.

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Un buon risultato secondo gli organizzatori del premio che hanno visto la partecipazione di 1200 progetti, a testimoniare della ricchezza e della qualità della progettazione sui temi di sviluppo sostenibile della città. I progetti hanno saputo interpretare al meglio il carattere della competizione offrendo prodotti di grande qualità, segno che si sta diffondendo una sensibilità e una voglia di misurarsi sui temi della progettazione sostenibile.

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Saie Smart House: i progetti di urbanistica più green

Anche quest’anno il SAIE, Salone dell’Innovazione Edilizia di Bologna, ha voluto premiare i progetti di urbanistica che meglio hanno saputo interpretare il concetto del green building, attraverso la riqualificazione architettonica degli spazi urbani e delle aree industriali in disuso.

Il premio RI.U.SO di Saie Smart House 2015 dedicato all’urbanistica green e alla rigenerazione urbana sostenibile è stato assegnato dalla giuria che ha valutato gli aspetti urbanistici legati alla sostenibilità del progetto, con particolare attenzione al concetto di densificazione e rigenerazione urbana per ridurre il consumo di territorio.

IL RICICLO DEI VUOTI URBANI: UN PROGETTO IN SPAGNA

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I PROGETTI VINCITORI DEL PREMIO RI.U.SO.

“Ripartire dalla città esistente”  vincitore per la sezione architetti

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Il progetto di via Andrea Costa portato avanti dal gruppo di lavoro con a capo Mauro Sarti è riuscito a trasformare un luogo, che fino a prima era solamente di passaggio e di parcheggio, in uno spazio a servizio della comunità dotato di una zona verde attrezzata che mira al raggiungimento di un’idea di boulevard sempre più sentita nella città contemporanea. L’intervento ha trasformato la strada esistente in un grande viale alberato con uno spazio verde che ha triplicato le sue dimensioni, attraverso il ridisegno anche dei giardini vicini. Il progetto mette in gioco una nuova visione della città dove in primo piano si trovano gli spazi verdi per la socialità, costruiti per rispondere alle esigenze dell’uomo prima di tutto. Lo spazio verde rimane integro, non viene corrotto dalla necessità di trovare risposta alle esigenze più pratiche, relegate infatti ad un livello secondario: la nuova isola ecologica viene realizzata al di sotto del livello stradale, utilizzando uno spazio che di più si presta a svolgere una funzione di questo tipo, garantendo anche un maggior risultato non solo dal punto di vista progettuale, ma anche pratico.

“Rehabitar” vincitore per la sezione Università Enti Fondazioni e Associazioni

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La continua trasformazione della città contemporanea ha messo in moto un processo di reinterpretazione dei vecchi poli industriali e artigianali dismessi; il Poblenou, quartiere storico di Barcellona è uno di questi spazi che si è caratterizzato negli ultimi vent’anni per una serie di profondi cambiamenti. Questo continuo processo di trasformazione, che attualmente muove ancora le sue macchine, ha contribuito però a creare un tessuto disomogeneo che spesso è rimasto inconcluso. È proprio su questo che i progettisti, capitanati da Sara Neglia, si sono concentrati, con l’obiettivo di ridare vita ad un distretto industriale ormai dismesso. L’idea di progetto si basa su una proposta che abbia come risultato la formazione di un modello per una strategia di riuso articolata in tre fasi, con lo scopo non tanto di definire un’architettura, ma piuttosto diffondere un processo di trasformazione che riesca a fondere i nuovi sistemi con l’esistente. L’integrazione diventa così un punto fondamentale dell’intero percorso progettuale, attraverso la sperimentazione e la partecipazione attiva dei cittadini che vivono questi spazi.

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Un buon risultato secondo gli organizzatori del premio che hanno visto la partecipazione di 1200 progetti, a testimoniare della ricchezza e della qualità della progettazione sui temi di sviluppo sostenibile della città. I progetti hanno saputo interpretare al meglio il carattere della competizione offrendo prodotti di grande qualità, segno che si sta diffondendo una sensibilità e una voglia di misurarsi sui temi della progettazione sostenibile.

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